Paradise Surprise - Webnovel - Narae

Paradise Surprise

Patrisha Mar - Contemporary Romance

Jenna è una scrittrice romantica in crisi creativa. Dopo l’ennesimo blocco dello scrittore e la pressione della sua editor e amica Amelia, viene convinta a partire per una crociera nel Mediterraneo per ritrovare ispirazione per il nuovo romanzo. Ma la … altro


38 Episodi

Episodio 1

 

 

Quando il telefono squillò, Jenna sollevò di scatto la testa appoggiata sul braccio piegato, avvertendo subito un forte dolore al collo e alla spalla. Si raddrizzò con lentezza, mentre l’impietoso telefono continuava a squillare. Sul display il nome che appariva le ricordava che quello era il giorno in cui doveva recarsi in casa editrice e mostrare i primi capitoli di un romanzo che non si voleva scrivere neppure pregando in tutte le lingue del mondo.

 

“Accidenti! Che faccio?”

 

Il buon senso le suggeriva di rispondere, mentre si stropicciava la faccia assonnata prendendo tempo. Aveva passato tutta la notte alla scrivania, cercando di spremere dalla mente, neppure fosse un limone, una storia nuova, frizzante, divertente. Quello che insomma la sua editor si aspettava da lei. Ma tranne qualche idea su un foglio, il risultato era terribile.

 

“Okay, rispondo, rispondo.”

 

All’ennesimo squillo, Jenna rispose veramente.

 

“Pronto, ma che fine hai fatto?”

“Sono qui, un po’ acciaccata.”

“Spero che tu abbia lavorato.”

“Oh, certo. Come no?” Sono un’autrice fallita, fallita, la mia carriera è finita.

“Ti ricordi che abbiamo un appuntamento tra mezz’ora qui in sede?”

 

Gli occhi di Jenna si spalancarono e corsero immediatamente a cercare l’orologio appeso al muro. Le lancette segnavano le 9:55.

 

Merda!

 

“Ehm, sì, certo, sto giusto chiamando un taxi.”

“Sei ancora a casa, lo sapevo. Muoviti, ti aspetto. E non dimenticare l’incipit del romanzo.” La voce di Amelia Heart, la sua storica editor fin dal primo romanzo pubblicato dalla Heart Love Story, di cui era anche la socia di maggioranza, le giunse rassegnata. La conosceva bene, c’era poco da fare.

 

Jenna riattaccò e chiamò subito il servizio taxi.

 

Mentre lo faceva, uscì dallo studio e raggiunse il bagno, dove lo specchio le mostrò il suo aspetto senza troppe cerimonie: occhiaie vistose, capelli passati da una centrifuga, sparati in direzioni impossibili, pigiamone felpato con le paperelle scolorite dai troppi lavaggi.

 

“Come faccio a sembrare umana in dieci minuti, momento in cui arriverà il taxi che ho chiamato?”

 

Le capitava spesso di chiacchierare con sé stessa, forse perché, abitando da sola da dieci anni, aveva imparato a farsi compagnia. A volte parlare ad alta voce la aiutava a fare chiarezza nella testa, spesso confusa con mille pensieri e mille idee per storie che alla fine non scriveva.

 

Le amiche le avevano suggerito di prendere un gatto, almeno avrebbe giustificato le sue conversazioni ad alta voce quando non c’era nessuno ad ascoltarla, ma lei aveva declinato la proposta: non sarebbe mai potuta andare d’accordo con un animale che a sorpresa poteva saltare su una scrivania o su un letto, facendole venire un infarto.

 

Okay, non aveva tempo di farsi una doccia. I capelli vennero magicamente strizzati in una dolorosa quanto funzionale coda di cavallo. Il pigiamone fu sostituito da un vestito lungo di lana color panna modello tenda da campeggio, comodo e caldo, che adorava e la faceva sentire a suo agio. Si infilò di corsa gli stivali color cuoio che le arrivavano sotto il ginocchio. Un po’ di lucidalabbra, un po’ di matita sugli occhi – magari avrebbe distolto l’attenzione dalle occhiaie – e il gioco era fatto, basta con il trucco. Non che lei amasse particolarmente truccarsi, ma il taxi era arrivato e non poteva perdere altri preziosi minuti. Dov’era il cappotto di cashmere che le arrivava alle caviglie? Ah, eccolo! Lo indossò subito: in fondo era fine febbraio, un febbraio dalle temperature ancora inclementi.

 

Si precipitò giù per le scale – l’ascensore era fuori uso –, non prima di aver afferrato la sua enorme ed eccentrica borsa fucsia con una margherita di stoffa sopra, in cui infilò di corsa alcuni fogli stropicciati e un pacchetto di patatine abbandonati sulla scrivania. Non aveva tempo per fare colazione e lo stomaco le brontolava rumorosamente.

 

Abitava al secondo piano di un tipico condominio nel quartiere West Village, dalla facciata in mattoni scuri con il portone marrone e un’ampia vetrata al centro.

 

Con i soldi che aveva guadagnato grazie ai suoi best seller, avrebbe potuto comprare di sicuro un attico in un quartiere più prestigioso di New York, ma quell’appartamento era la sua oasi di pace, il suo regno, la sua più grande sicurezza, e non lo avrebbe cambiato per nulla al mondo.

 

Guardando fuori dalla finestra del suo studio, posizionata proprio di fronte alla scrivania in mogano che una volta era appartenuta a suo padre, aveva scritto infinite storie d’amore, di quelle che lasciano il segno nel cuore delle lettrici: amori romantici, puri, destinati a rimanere delicati e profondi.

 

Insomma: tutto quello che Jenna non aveva mai sperimentato per sé. Amelia, ormai diventata anche una sua cara amica, l’aveva rimproverata più di una volta per non aver mai provato a gettarsi nella mischia, per vivere come una sorta di eremita dei sentimenti, e si domandava come potesse scrivere così bene dell’amore senza averlo mai davvero vissuto.

 

Jenna rimbeccava che la sua fantasia poteva arrivare lontano, e tagliava sul nascere quella conversazione spinosa a cui non voleva dare seguito. E non ne voleva sapere di rischiare il cuore e l’orgoglio: si era abituata a bastarsi, e, forse, la paura aveva preso il sopravvento. L’abitudine aveva fatto il resto.

 

Vestiti comodi, look non appariscente, un paio di chili di troppo e una vita tranquilla erano diventati il suo mondo, insieme ai libri e agli amici più fidati, pochi ma buoni. Non disdegnava le presentazioni nelle librerie: le piaceva molto il contatto diretto con i lettori. Avvertiva il loro calore e affetto, erano una carica per il suo ego e per la voglia di fare sempre meglio. Purtroppo non poteva esimersi dal presenziare ai talk show, quando necessario, ma questo la costringeva a fare training autogeno, sperando che tutto finisse in fretta: proprio non sopportava di essere truccata e sentirsi esposta, vista contemporaneamente da milioni di persone nel Paese. Non c’era niente che fosse più distante dal suo modo di essere, né più insopportabile.

 

Era in pace con sé stessa, e si piaceva per quella che era nei suoi primi trent’anni. Se agli altri non stava bene, era un problema loro, non suo.

 

Fece gli ultimi gradini fuori dal portone, con il fiatone. Il taxi era già lì che l’aspettava.

 

Diede all’autista le indicazioni per arrivare alla Heart Love Story, si rilassò sullo schienale e afferrò il pacchetto di patatine, iniziando a sgranocchiarle e osservando fuori dal finestrino.

 

Le vie della città, che tanto amava e che erano sempre indiscusse protagoniste di ogni sua storia, con i loro colori, stili e vita frenetica, le scorrevano davanti agli occhi.

 

Inavvertitamente un sorriso le aleggiò sulle labbra carnose, per poi spegnersi al pensiero che aveva ben poco da mostrare ad Amelia. Un disastro annunciato.

 

Non riusciva a spiegarsi il problema, ma era come se un terribile blocco dello scrittore stesse sabotando ogni tentativo di proseguire con la storia. Era frustrata: indubbiamente qualcosa non andava in lei.

 

I tempi della consegna si avvicinavano, e questo le gettava addosso una tale tensione che il cervello si era spento. E pensare che l’idea di base era buona, eppure i personaggi non volevano decollare su questo volo.

 

Sospirò, per poi addentare l’ennesima patatina croccante, super-salata e unta. Alla faccia della dieta, non era una cosa per lei. Sicuramente avrebbe pagato il conto arrivata ai cinquant’anni, ma c’era tempo, e il suo metabolismo, d’accordo con la gola, poteva ancora supportarla in queste scelte alimentari non proprio salutari. Al diavolo!

 

Il traffico sembrava aver ingoiato il taxi. All’ennesimo stop, rendendosi conto che non era troppo distante dalla casa editrice, pagò, scese dalla vettura e si incamminò con un passo affrettato, che si trasformò in una corsa quando gettò un’occhiata all’orologio da polso, uno dei pochi ricordi che aveva di suo padre, insieme alla scrivania. Era un vecchio modello con le lancette, il cinturino marrone e l’orario che le gridava: sei in mortale ritardo.

 

Quando vide le porte del palazzo dove si trovavano gli uffici della Heart Love Story, che si aprirono subito al suo passaggio, ringraziò mentalmente di avere ancora fiato in corpo; non era un tipo atletico. Non sapeva neppure cosa fosse una palestra.

 

Si avvicinò all’ascensore e si infilò al suo interno per miracolo, ma il cappotto le rimase intrappolato tra le porte. Diede uno strattone veloce, sbalzando all’indietro e liberandolo prima che l’ascensore partisse. Urtò contro un signore con un completo scuro e i capelli brizzolati, che la guardò storto.

 

“Mi scusi.”

 

Si sistemò in un angolino della cabina, in attesa di arrivare al decimo piano, dove appunto si trovavano gli uffici del suo editore.

 

Insieme a un altro paio di persone, uscì, si diede una rapida sistemata e aprì la porta in vetro, per arrivare davanti al bancone dove si trovava Sally, la segretaria storica della casa editrice. Aveva i capelli ben acconciati e il trucco perfetto, come sempre.

 

“Era ora! Amelia ha chiesto di te già un paio di volte.”

Jenna scosse la testa e sorrise: “Nottataccia.”

“Spero per i motivi giusti.” Sally le rivolse l’occhiolino.

 

Jenna ridacchiò, sperando di darsi un tono, facendole quasi credere che fosse vero. Altro che i motivi giusti, erano tutti sbagliati.

 

Si incamminò per il lungo corridoio, dove si affacciavano i vari uffici. Intanto si tolse il cappotto, e nel farlo perse l’equilibrio, finendo addosso a una grossa pianta accanto a una porta, da cui stava uscendo proprio in quel momento Ken Philips, un nuovo editor arrivato in casa editrice circa un anno prima. Le stava cordialmente sulle scatole. Ogni volta che la guardava sembrava ridere di lei, o magari considerarla un impiastro personificato. Anche ora, aveva sollevato il sopracciglio con fare ironico.

 

Va bene, era goffa, lì dentro aveva combinato qualche casino qua e là, come rompere la sua tazza – lo aveva scoperto dopo – nell’angolo ristoro riservato ai dipendenti. Un gesto involontario: aveva solo appoggiato la sua mastodontica borsa sul ripiano e inavvertitamente fatto cadere una tazza di Darth Vader nera, una cosa obbrobriosa, degna del peggiore dei nerd. Era la tazza di Ken, ovvio! Ma che razza di nome era Ken? Forse si frequentava con Barbie!

 

“Ce l’hai con la mia pianta, oggi?” la riprese fissandola divertito.

“Ho perso l’equilibrio e sono in ritardo… e…”

“Sì, sì, buongiorno a te, Jenna.” Le passò oltre: all’improvviso era diventata invisibile, assolutamente insignificante.

 

Jenna arricciò il naso come se avesse sentito una terribile puzza, ma non poté che osservare la schiena di Ken fasciata dalla camicia bianca di ottima foggia, e quel pazzesco fondoschiena perfettamente sostenuto da un paio di jeans attillati. Che fisico, che figo, che stronzo.

 

Scosse la testa e riprese il contegno, per raggiungere la porta di Amelia, bussando ed entrando senza aspettare.

 

“Ci conosciamo?” fece Amelia osservandola storta da dietro la scrivania di cristallo, scrivania, manco a dirlo, ultra-pulita e ordinata. La luce del giorno e il panorama di una New York imponente erano dietro di lei, a incorniciarla.

“Scusami tanto.”

“So che la puntualità non è il tuo forte, ma riesci sempre a sorprendermi.”

“Mi piacerebbe di più sorprenderti per il mio estro e ingegno.” Jenna sprofondò sulla sedia e appoggiò la borsa ai suoi piedi.

“Inutile girarci intorno. Hai nulla per me?”

 

Amelia inclinò il capo e la osservò in silenzio.

 

La sua amica, editor, capa, eccetera, eccetera, era una bellissima donna di quarant’anni, le cui storie d’amore si accavallano l’una all’altra senza soluzione di continuità. Era elegante, festaiola, moderna e brillante, anche troppo. Doveva aver stanato il disagio di Jenna e, osservandola così, le stava mettendo addosso un’ulteriore ansia, di cui certo non aveva bisogno.

 

“Allora?”

 

Jenna estrasse dalla borsa i pochi fogli che aveva e li porse con titubanza. Amelia li afferrò, ma Jenna non sembrava disposta a mollarli e fece resistenza. Amelia tirò, al che Jenna lì lasciò andare con una smorfia.

 

Amelia si tuffò nella lettura, mentre lo sguardo di Jenna era inchiodato sull’amica. Voleva cogliere le sue espressioni, ma non ce n’erano, sembrava una statua di sale. Come poteva rimanere tanto immobile?

 

Dopo circa cinque minuti, Amelia sollevò gli occhi per incrociare quelli di Jenna.

 

“Stai scherzando, spero? Dov’è il resto?”

“Se ti dicessi che l’ho dimenticato a casa e…”

“Jenna!”

“Okay, okay.” Jenna scattò in piedi e iniziò a camminare per la stanza, sproloquiando, cosa che le accadeva sempre quando era tanto agitata. “Non vogliono venire fuori, questi personaggi si sono rintanati dentro il loro rifugio, blindati. Non riesco a sentirli, la loro voce non mi arriva.”

“Se continui a parlare così, chiamerò un’ambulanza per farti internare” scherzò Amelia, mentre Jenna le lanciava un’occhiata di fuoco.

“Non so che mi ha preso. La storia ce l’ho in testa, ma non ne vuole sapere di uscire. Il mio ultimo libro è stato un grande successo, e ora mi ritrovo qui con una manciata di peperoni tra le mani.”

“Peperoni?”

“Sì, insomma, è un modo di dire.”

“Di chi?”

“Il mio!”

“Calmati, capita a tutti un momento difficile. So che hai molta pressione addosso.”

“Ammettilo: vuoi un romanzo che superi il precedente, faccia faville, generi montagne di dollaroni. Che diventi il prossimo film di Netflix.”

“Non mi dispiacerebbe, in effetti.”

“Ho il blocco dello scrittore, il blocco del cervello. Ho paura.”

 

Jenna si gettò sulla sedia, tirando fuori tutto il fiato che aveva in corpo, e si afflosciò come un soufflé.

 

“Fallirò, me lo sento.”

“Sciocchezze. Forse ti sono stata con il fiato sul collo, e mi spiace se ti senti così. Hai scritto un romanzo dietro l’altro, senza fermarti mai. La tua potrebbe essere stanchezza.”

Amelia si alzò, e, sinceramente preoccupata, le si avvicinò, sedendosi sul bordo della scrivania di fronte a lei. “La storia è buona” aggiunse con voce gentile.

“Lo so, ma non viene fuori.”

“Forse l’ambientazione non ti aiuta a mettere pepe alle interazioni dei tuoi protagonisti.”

“Non ne so nulla di Alaska, alci e montagne” brontolò Jenna. “L’unica volta che provo a scrivere una storia non ambientata a New York, faccio letteralmente schifo.”

“Non fai schifo, non c’è praticamente nulla che può fare schifo, se non contiamo quattro foglietti.”

Jenna si portò il volto tra le mani e lo nascose. “Forse hai ragione, il pubblico si è stufato di New York, ma io non ho praticamente mai viaggiato, né fatto nulla di speciale nella vita. Sembrerà sempre tutto forzato.”

Amelia le tolse le mani dal volto con le proprie. “Cosa credi, che tutti gli autori siano stati nei posti che descrivono nei loro romanzi?”

“Beh, dovrebbero, per dare credibilità alle loro storie.”

“Allora, che aspetti? Se la pensi così, è il momento di fare il grande salto.”

“Prego?”

“Scegli una nuova ambientazione e parti, vai a studiare, a rilassarti. Fai come farò io, una vacanza ti ci vuole proprio, e anche a me, che partirò a breve con il mio ultimo boyfriend. Ogni tanto staccare il cervello aiuta.”

Jenna osservò Amelia, sorpresa dalla proposta. “Parli sul serio?”

“Certo.”

“Ma io non ho mai viaggiato da sola, e non saprei dove andare!”

“Non devi mica deciderlo adesso, ma pensaci. Potrebbe essere la soluzione ai tuoi problemi. Intanto vai a casa, fatti un bel bagno caldo, rilassati ed elucubra. Quando avrai le idee più chiare, chiamami, così ne riparliamo. Ne sono certa: con qualche cambiamento, la tua storia partirà alla grande, ho fiducia in te.”

“Meno male che ce l’hai tu, io a malapena mi riconosco.”

“Segui il mio consiglio e…”

Non fece in tempo a finire la frase che bussarono alla porta. La testa di Ken fece capolino. “Ti disturbo? Ah, scusami, non sapevo che Jenna fosse qui.”

 

Certo, perché sono invisibile, pensò la ragazza tirata in causa.

 

“Entra pure” fece Amelia, tornando a sedersi dietro alla scrivania.

Jenna guardò Ken avvicinarsi e prendere la parola con sicurezza. “Vorrei parlarti del nuovo romanzo di Pierce Johnson, quando hai finito.” E lanciò un’occhiata di sfuggita a Jenna, che, per reazione, abbassò lo sguardo. Perché accidenti quell’uomo la faceva sentire tanto a disagio? Era un mistero, ma ogni volta che lo incontrava – e per fortuna non accadeva spesso – il suo istinto le suggeriva di fuggire nella direzione opposta. Ma accidenti se era affascinante, con quei lineamenti del volto pericolosi e intriganti. In qualche rara occasione, si era chiesta come sarebbe stato infilare le mani tra i suoi capelli castani un po’ mossi, ma corti al punto giusto per non apparire trasandati. Tutto in lui sembrava studiato per farlo sembrare un maschio alfa di nuova generazione.

 

Peccato che fosse stronzo, almeno con lei.

 

“Ah, certo, Pierce.” Amelia si rivolse a Jenna. “Direi che è tutto per oggi, a meno che tu non abbia bisogno di dirmi altro.”

“Siamo a posto, sì.” Jenna si alzò e raccolse i fogli, sentendo gli occhi di Ken puntati sulla schiena, mentre, impacciata, riponeva tutto nella sua borsa.

“Comunque rifletti su quello che ti ho detto, mi raccomando.”

“Certo, capo, lo farò.”

 

Jenna stava per dileguarsi, quando, spostandosi da dove si trovava, agganciò con un piede la gamba della sedia, inciampando miseramente e cadendo in avanti.

 

Ken, tuttavia, la raccolse prima ancora che rovinasse a terra come la più sfigata delle impedite. Jenna sollevò lo sguardo e incontrò, in quella infelice e particolarmente umiliante posizione, quello di lui, che aveva di nuovo il dannato e insopportabile ciglio sollevato. Gesto di riprovazione, di nuovo. Si domandò se quel sopracciglio si incastrasse tatticamente solo quando lei era nei paraggi, o magari soffriva di una contrazione perenne? Forse Ken sarebbe dovuto andare a farselo sistemare perché, se pensava di essere sexy con quel coso sollevato, non lo era per niente. Era solo dannatamente odioso.

 

Jenna fece una specie di broncio e si raddrizzò, recuperando la dignità perduta. “Grazie.”

“È un piacere” sghignazzò Ken, per poi non degnarla più di un secondo sguardo.

Jenna si allontanò e afferrò la maniglia della porta, pronta a uscire, quando si sentì chiamare. “Ah, Jenna, hai dimenticato una cosa: ti è caduta dalla borsa.”

 

Riluttante, tornò indietro e si accorse che Ken le stava porgendo in effetti qualcosa, trattenendo a stento una risata spietata. Con orrore, Jenna constatò che si trattava del pacco di assorbenti che portava sempre con sé per ogni evenienza. Era importante essere previdenti, ma in questo momento le pareva una pessima idea.

 

Jenna lo prese e, senza aspettare un secondo di più, corse fuori dalla stanza, con il viso in fiamme e la voglia di uccidere qualcuno in particolare.

 

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