Monique Scisci - New Adult
Quando Glenn è costretta a trasferirsi al Townsend Institute, un riformatorio, per frequentare l’ultimo anno di liceo, in cuor suo spera di non compromettere la sua ammissione al college. Ma l’incontro con Aiden Wilson rischierà di mandare all’aria il suo … altro
C’erano dei fili invisibili che mi legavano alle cose che conoscevo. E ora, quegli stessi fili si stavano tendendo in maniera dolorosa. Ne avvertivo gli strappi sulla pelle.
Abbassai le cuffie e mi schiarii la voce: “Manca molto?” chiesi all’autista. Ero tutt’altro che ansiosa di raggiungere la mia destinazione, ma l’attesa mi rendeva inquieta.
“Siamo quasi arrivati” mi informò lui, continuando a mantenere lo sguardo fisso sul parabrezza.
Dopo alcuni minuti, rallentammo in prossimità di un grande cancello in ferro.
Recava la scritta: Benvenuti all’istituto correttivo Townsend. Ai due lati erano appostate due guardie in divisa militare, alle quali l’autista fornì i documenti del tribunale.
Mentre verificavano la mia identità, trattenni il respiro.
Il giudice mi aveva assicurato che il riformatorio ospitava ragazzi come me, che avevano commesso degli errori, e che dovevano essere riabilitati. Sperai solo di non imbattermi nella versione 2.0 delle mie ormai ex compagne di classe.
Dopo aver superato il cancello, ci fermammo di fronte a quella che doveva essere l’entrata principale. Proprio in quel momento iniziò a piovere.
L’autista venne ad aprirmi lo sportello. Scesi, riparandomi sotto il suo ombrello, e insieme procedemmo verso l’ingresso.
Il Townsend Institute metteva soggezione. Non sembrava affatto un istituto correttivo, bensì un castello vittoriano in stile gotico, con tanto di torrette di guardia. Mi chiesi se ci fossero dei cecchini pronti a intervenire qualora qualcuno avesse tentato la fuga.
“Che posto è questo?” gli chiesi osservando l’imponente struttura.
“Un tempo era la dimora di un conte. Dopo essere caduto in disgrazia, è stato costretto a vendere. Ora è di proprietà della contea” rispose lui.
Imboccammo la rampa di scale e raggiungemmo il portone in legno intarsiato. L’uomo usò il batacchio a forma di leone per informare del nostro arrivo. I colpi mi strapparono un sussulto.
Venne ad aprirci una donna dai tratti austeri. Indossava un completo nero, e la giacca era chiusa sul collo fino all’ultimo bottone.
“Buongiorno, Ms Pratt” la salutò, usando un tono reverenziale. Mi premette una mano dietro le scapole per esortarmi a fare un passo avanti.
Titubante, avanzai e le tesi la mano.
La donna mi fissò a lungo prima di accogliere il mio gesto. Quando mi strinse le dita, sentii un formicolio dietro al collo. Era inquietante, come tutto il resto d’altronde.
“Ben arrivata, signorina Scott. Sono la direttrice del Townsend Institute. Venga con me.”
L’autista si congedò, lasciando il mio bagaglio a terra. Lo recuperai e seguii Ms Pratt all’interno, guardandomi attorno. A parte noi due sembrava non esserci anima viva.
Ci fermammo davanti a una porta. La direttrice estrasse dalla tasca un grosso mazzo di chiavi e la aprì, invitandomi a entrare nel suo ufficio.
“Si sieda” ordinò, facendo il giro della scrivania.
Mi accomodai su una poltrona, lei si sedette di fronte a me, con la schiena dritta e lo sguardo indagatore.
“Le hanno spiegato come funziona qui?” mi chiese a un tratto.
Sollevai la testa, incontrando i suoi occhi celesti. “No” mormorai, allungando le maniche della felpa.
“Il Townsend non è un istituto ricreativo” ci tenne subito a precisare. “Non tolleriamo l’insubordinazione.”
Deglutii un nodo di saliva.
“Gli studenti fanno ciò che gli viene richiesto” proseguì con voce severa.
Tesi le labbra. “Io… Io non dovrei essere qui” mi lasciai sfuggire in un sussurro.
“È quello che dicono tutti” ribatté lei senza scomporsi.
Probabilmente aveva ragione. Nessuno mi credeva. E quando il giudice si era espresso a favore del mio “esilio”, nemmeno io ero riuscita a oppormi. E i miei genitori si erano addirittura detti sollevati che non fossi finita in prigione.
Ms Pratt si spinse sullo schienale della sedia, artigliando i braccioli con le dita nodose. “Qui limitiamo al massimo le interazioni fra gli studenti” disse.
E questo forse spiegava perché quel posto dava l’impressione di essere disabitato.
“Nessuno può circolare liberamente tra i corridoi durante l’orario delle lezioni, ovvero dalle otto del mattino fino all’ora di pranzo, e dalle due fino alle sei del pomeriggio” continuò. “Il coprifuoco è alle nove di sera. E ciò significa che, subito dopo cena, dovrà rientrare nella sua stanza se non vorrà essere punita.”
Mi accigliai. “Punita? Che significa?”
“Le è forse sfuggito che questo è un riformatorio giudiziario?”
Abbassai la testa e lei riprese: “C’è un’aula multimediale al primo piano, fornita di dvd. Alcuni studenti si ritrovano lì nel weekend. Ma la avverto, è attivo h24 un sistema di videosorveglianza in tutto l’edificio.”
In pratica, per i prossimi nove mesi potevo dire “addio” alla mia privacy.
“E non sono ammessi i cellulari” aggiunse.
Stavo per replicare quando la porta si aprì di scatto, facendomi sobbalzare sulla poltrona.
“Perdoni il ritardo, Ms Pratt” si scusò l’uomo, raggiungendomi. “Buongiorno, Glenn” mi salutò poi, rivolgendomi un sorriso comprensivo. “Io sono Carter, il counselor del Townsend Institute. Non vedo l’ora di conoscerti meglio.”
Sembrava gentile, ma io ero troppo sconvolta per essere educata.
“Consegni il suo telefono al signor Carter” ordinò la direttrice.
Lui protese la mano.
“No” mi opposi.
“È per il tuo bene” cercò di convincermi il counselor.
“Ma così sarò tagliata fuori dal mondo” protestai.
I social erano l’unico “luogo” in cui potevo essere me stessa. Le persone che mi seguivano apprezzavano il modo in cui parlavo dei libri che amavo. Instagram e TikTok erano il mio posto sicuro, lì nessuno poteva farmi del male. E, dato che non avevo potuto portare con me il mio pc, il telefono era l’unico strumento con cui potevo accedervi.
“Doveva pensarci prima” sentenziò la direttrice.
Prima. Prima di trasformarmi in una persona che non ero.
Tirai fuori lo smartphone, e a malincuore lo consegnai al signor Carter.
“Non preoccuparti, con me sarà al sicuro” sussurrò lui, facendomi l’occhiolino.
“Potrà usarlo un’ora la domenica, sotto la supervisione del signor Carter” riprese Ms Pratt.
Le spalle mi ricaddero addosso pesanti.
Dopodiché il counselor mise il mio bagaglio sulla scrivania e lo aprì. Rovistò nella mia roba, e quando trovò i romanzi che avevo portato, li mise da parte.
“Che significa?” insorsi di nuovo.
“Leggerà esclusivamente i libri che le assegneranno gli insegnanti. Non ha bisogno di altro” precisò la direttrice. Prese il caricabatterie del cellulare e lo diede al signor Carter, il quale se lo infilò nel taschino della giacca.
Mi sentii violata, e mentre loro continuavano l’ispezione, alla ricerca di qualche altro oggetto personale da confiscarmi, restai con lo sguardo basso.
“Qui il suo unico obiettivo sarà superare l’anno scolastico” decretò Ms Pratt, richiudendo il bagaglio.
Poi fui portata in infermeria, la direttrice restò fuori.
“Prenderete anche le mie impronte?” domandai alla dottoressa.
L’anziana donna finse di non sentirmi. “Hai diciassette anni, usi dei contraccettivi?” mi chiese invece.
Scossi la testa. “Io non ho… non ho mai fatto sesso” confessai. La maggior parte delle mie coetanee aveva già sperimentato certi piaceri, ma io non ero come loro, guardare un ragazzo significava espormi.
“Ti hanno detto che sono proibiti i rapporti con altri studenti, vero?”
Annuii. Era ovvio che l’avvertenza di Ms Pratt si estendesse anche a quel tipo di rapporti.
Terminata la visita, la direttrice mi consegnò la divisa dopodiché mi scortò nella mia nuova stanza.
“Sarà in ottima compagnia” disse. “La signorina Scarlet Addams ha fatto grandi progressi.”
“Perché è qui?” le chiesi.
Si fermò davanti alla porta. “Al Townsend Institute nessuno parla delle proprie questioni personali. Per questo, c’è il signor Carter.”
Trattenni le lacrime nelle palpebre. Non avevo mai provato uno sconforto simile in tutta la mia vita.
“Un’ultima cosa, signorina Scott” disse prima di andarsene. “Si tenga alla larga da Aiden Wilson. È un soggetto pericoloso.”
“Pericoloso?” ripetei allarmata.
“E violento.” Detto questo girò sui tacchi e mi lasciò sola nel corridoio.