Caramel macchiato, film di Natale e fiori di campo - Webnovel - Narae

Caramel macchiato, film di Natale e fiori di campo

Eva Kim - Contemporary Romance

Poppy è in ritardo. Montatrice freelance specializzata in film natalizi, ha un’unica notte per finire un progetto cruciale o rischiare di perdere il cliente più importante. La mattina dopo, mentre esce per un caffè, trova il bar stranamente familiare, eppure … altro


21 Episodi

Episodio 1

 

“Settantadue ore. È tutto quello che posso concederti, vedi di arrangiarti.”

 

Con una mano reggo il cellulare, con l’altra scrollo con il mouse senza convinzione. Per almeno la centesima volta, mi chiedo cosa abbia fatto per meritare un trattamento simile. Mi chiedo anche perché continuo a sopportarlo senza battere ciglio. Mi chiedo cosa stia facendo della mia vita, in realtà. E a maggior ragione mi chiedo cosa sia venuta a cercare qui.

 

“Parti per una grande città” mi aveva suggerito mia madre, ma è stato più un abbandono che un incoraggiamento a spiccare il volo. In quel momento ero appena atterrata nel mondo degli adulti, con zero diplomi in tasca e ancora meno idee sulla carriera in testa. “Lì la vita corre più veloce. Chissà, forse qualcuno vorrà condividere la sua corsa con te.” Parli tu!

 

Non ho avuto bisogno di verificare su Internet. La grande città più vicina a casa mia è New York. Arrivava al momento giusto, ed è senza dubbio la più grande degli Stati Uniti. Quella dalle infinite possibilità.

 

Dicono che basti metterci piede per aprirsi a un mondo di nuove opportunità. È lì che prendono vita le storie più belle, forgiate al ritmo delle banconote che cambiano mano e delle strette di mano a Wall Street, una verità che non ha bisogno di spiegazioni. Peccato che con i miei miseri risparmi sia riuscita ad affittare solo un piccolo monolocale nell’estrema periferia di Brooklyn.

 

La migliore, se non unica, opportunità che mi sia capitata finora, è questo mouse, trovato su un annuncio online. Mi è stato consegnato a domicilio a metà prezzo. L’altra faccia della medaglia? Fornire le mie coordinate all’inserzionista dell’annuncio. Cambia colore a ogni click sinistro, e da quando lo uso non ho più crampi alle dita. Ne ho abbastanza di questi messaggi spam dei siti porno nella mia casella di posta!

 

“Settantadue ore” ripete Jeff. “Di solito ti pago bene, quindi mi aspetto un lavoro fatto come si deve. Non farmi pentire di averti affidato questo progetto.”

“Mi paghi pochissimo, Jeff.”

“E ricevi un compenso sicuramente maggiore rispetto alla concorrenza. Mi dispiace, ma se perdi ancora tempo detrarrò delle penali dalla tua fattura.”

 

Traggo un sospiro, senza preoccuparmi di essere discreta o meno. Sono tre anni che faccio avanti e indietro per lui. Non riesco a credere che adesso si metta a parlare di penali.

 

Click, click, click. Nell’interstizio che separa i tasti, le luci a neon si alternano sempre più velocemente, segnando in modo indelebile il peso opprimente della mia frustrazione. Rosa, viola, giallo, blu… ecco, ora il rosa. Sono stati tirchi sui colori. In realtà qui lo sono tutti.

 

“Abbiamo un contratto” tento di dire. “In teoria avrei altre due settimane di tempo per le rifiniture.”

“E quindi? Come speri di migliorare se non sei capace di lavorare sotto pressione? Consideralo come una specie di puro addestramento. Dandoti meno tempo ti sto facendo un favore.”

 

Stringo i denti. Già gli consegno i suoi film con scadenze disumane. Ma va bene. La piattaforma di streaming on demand per la quale lavora si ritroverà all’improvviso con uno spazio vuoto nel palinsesto. Pazienza se la gentile e piccola montatrice si stressa, cosa vuoi che sia, basta che la trasmissione sia puntuale.

 

“Hai capito? Settantadue…”

 

Lo interrompo. Se lo sento ancora parlare delle sue fottute settantadue ore, credo che perderò il controllo una volta per tutte:

 

“Sei consapevole che siamo già a fine pomeriggio?”

“E quindi?”

“Quindi non significano niente queste tue settantadue ore. È tra tre o quattro giorni, esattamente? Perché a sentirti parlare mi sembra di ascoltare quei genitori ossessionati che continuano a contare l’età dei figli in mesi… anche quando il bambino ha già i baffi. Se potessero, lo farebbero fino ai diciott’anni. Mi avviserai anche tu quando il tuo ne avrà quarantadue?”

 

Jeff non risponde, ma lascia nell’aria un silenzio denso di dubbi. Non è mai un buon segno.

 

“Sei davvero fuori di testa, Poppy. Manda tutto entro domani. Poi ce ne occuperemo internamente.”

 

E riattacca.

 

Mollo tutto, il mio super-mouse, il cellulare e le ultime speranze per affondarmi il viso tra le mani.

 

Non mi stupisce che abbia riattaccato!

 

Fin da piccola uso l’ironia estrema come un’arma. È quasi un atto di ribellione, in un mondo dove ognuno deve trovare il proprio posto… e smettere di parlare. E funzionava con Jeff, agli inizi. Cercava di fregarmi sui prezzi e io gli rammollivo il cervello a colpi di monologhi senza capo né coda. Ma ora che ha ottenuto una certa reputazione nel mondo della televisione è molto meno malleabile.

 

Appare una notifica sul mio pc. È un’e-mail di Jeff, giustamente. Ha sostituito l’oggetto iniziale dei nostri scambi (“Un caffè a duemila dollari e del vischio”, il titolo del film su cui sto lavorando sodo) con “Atto aggiuntivo al contratto”. Un modo cortese per parlare di rottura anticipata, suppongo.

 

Sprofondo un po’ di più nella poltrona ergonomica. Per quanto sia un tirchio, mi affidava la maggior parte dei progetti. Soprattutto in estate, quando i set cinematografici sfornano a ciclo continuo una valanga di storie d’amore solo per saturare la stagione festiva. Almeno con le noccioline posso sfamarmi, con quello che mi danno loro no.

 

Ma forse posso ancora correggere questo nuovo fuoriprogramma. Fuori il sole sta quasi tramontando. Mi sento armata di buona volontà e ho un mouse rivoluzionario. Più che sufficiente per condensare due settimane di lavoro in una sola notte. Se dimostro di esserne capace, Jeff accetterà indubbiamente di riprendermi nel suo team. Pazienza se ci rimetto qualche anno di vita e un po’ del mio orgoglio.

 

Rinvigorita, asciugo con la maglietta le tracce lasciate sugli occhiali da riposo e mi rimetto al lavoro.

 

Tagli delle riprese, correzione colori e controllo della continuità tra le scene per evitare errori visivi: durante le ore successive, perfeziono ogni dettaglio del materiale grezzo filmato. Non saprei dire il momento esatto in cui crollo esausta sul mio letto. A un certo punto la stanchezza diventa così profonda che tutto si confonde. Quello che so è che chiudo gli occhi immaginando quanto dev’essere facile vivere in storie dove tutto è più roseo e meraviglioso… e li riapro molto tempo dopo, con un gran mal di testa.

 

“Cosa ne dite, Damon?”

“Questa distribuzione di cioccolata calda non si farà nel mio centro commerciale. Entrare nelle nostre boutique è un lusso, non possiamo certo chiedere ai nostri affittuari di trasformarsi in babysitter per tutti i bambini del quartiere solo perché si avvicina il Natale!”

“Ma insomma, vi siete preso un impegno con il bar. Emily ha già…”

 

Con un sospiro affaticato, mi tolgo gli occhiali, che di sicuro mi hanno lasciato un bel segno sul naso, e mi sollevo su un gomito per mettere in pausa la scena. Stanotte ho visto la versione finale del film due volte di fila. Se mi alzo troppo in fretta, rischio seriamente di vomitare tutti i cliché visti.

 

La luce del mattino filtra attraverso la finestra, già più sveglia di me. Un senso di sollievo mi attraversa al pensiero che ormai devo solo inviare il risultato a Jeff. Mi trascino fino al bagno, riflettendo se aggiungere delle scuse insieme agli altri allegati. Riscaldo un po’ di caffè avanzato nel microonde quando mi blocco a due passi dalla scrivania, dove il mio computer è rimasto acceso.

 

“Cosa…”

 

Andare nel panico ad alta voce mentre sono da sola in casa: anche questo è proprio un cliché.

 

“No, no, no!”

 

Con un’agitazione quasi febbrile, spingo via la poltrona che mi ostruisce il passaggio e mi getto sulla tastiera, con le dita che battono sui tasti come colpi di martello. Ovunque, purché il mio software di montaggio smetta di cancellare uno dopo l’altro i segmenti completati. Niente da fare: il tempo di voler spegnere manualmente per avviare un salvataggio automatico, ed è già tutto scomparso.

 

Ho sempre saputo che le macchine, prima o poi, si sarebbero alleate contro l’umanità. Ma non pensavo che la loro priorità sarebbe stata distruggere la carriera di una semplice lavoratrice autonoma che, tra l’altro, se la cavava già benissimo senza di loro.

 

Ma che diamine ho combinato?

 

Rimango immobile, attonita. Impotente. Abbattuta. E come se volesse infierire anche il destino, la macchia di caffè rovesciata in preda al panico si sta allargando sul mio maglione bianco.

 

Devo uscire.

 

Mi manca l’aria, chiusa nel mio disordine e nei miei fallimenti. Allora, con un improvviso slancio di energia, infilo un paio di scarpe da ginnastica ed esco dal monolocale. Il caffè è finito, ormai; forse è un buon motivo per prenderne uno fuori.

 

Il cellulare si mette a vibrare quando sono sul marciapiede ai piedi del palazzo. Riattacco digitando il tasto laterale attraverso la tasca posteriore dei jeans. Forse è Jeff. Non voglio saperlo.

 

Una raffica di vento sposta i miei ricci crespi sul volto, e all’improvviso realizzo quanto faccia freddo. Il cielo e la gente sembrano fin troppo pallidi per essere nel mese di settembre. Mi rifiuto comunque di tornare a casa a prendere una giacca e mi dirigo verso l’ingresso della metro più vicina. Allontanarmi equivale a distanziarmi dai miei problemi.

 

Devo solo schiarirmi le idee. Trovare una soluzione. Capire. Avrò cliccato su un tasto sbagliato, mettendo il file in pausa? Ma conosco abbastanza bene il programma per sapere che non c’è alcun tasto rapido per attivare la cancellazione. Allora che succede?

 

Sto riflettendo su quale stazione scendere, seduta su un sedile a ribalta del convoglio, quando una seconda chiamata fa vibrare il mio cellulare contro il mio sedere. Al terzo squillo mi decido a verificare il nome del contatto.

 

Numero sconosciuto. Ma uno sconosciuto dannatamente tosto.

 

“Era ora!” esclama la persona all’altro capo del filo, quando finalmente mi degno di rispondere. “Dove sei? Stai studiando il planning della settimana? Stamattina avresti dovuto iniziare alle otto. Sono le tre passate! Sarà meglio per te essere già in strada per raggiungerci, se non vuoi perdere il lavoro!”

 

La sorpresa mi impedisce di trovare una risposta sensata. Ne ho già uno, di lavoro. Ma non sono tenuta ad andare da nessuna parte per farlo, eccetti il monolocale di quindici metri quadi da cui sono appena uscita. Per un attimo soltanto, penso a Jeff. Comunque sia, non era la sua voce.

 

Mentre l’altro continua a vociferare nel vuoto, allontano il cellullare a una distanza ragionevole dal mio orecchio.

 

“Vi siete messi tutti d’accordo per farmi andare fuori di testa, oggi? Ti restano solo cinque minuti di tempo per sbrigarti e presentarti! Un secondo di più e ti giuro che sarai licenziata!”

 

Ecco, penso mentre riattacco senza avvertire, perché ritengo di avere già abbastanza problemi da risolvere senza dovermi sobbarcare anche quelli di un’estranea che preferisce godersi la sua lunga dormita invece di prendere servizio. Una volta in più o una in meno, cosa vuoi che cambi…

 

Questo strano imprevisto basta a innervosirmi ancora di più e farmi lasciare il vagone alla prossima fermata. Sul binario, il volto arrogante di Damon mi provoca con un sorriso degno di una pubblicità per dentifrici. Beh, in fondo non è davvero Damon. È Andrew Williams, l’attore della maggior parte dei film che monto, incluso l’ultimo. A me sembrava più un annuncio da grande inaugurazione commerciale… anche se dubito che quel suo sorriso venga davvero visto come arrogante dagli altri passeggeri. In ogni caso ha la reputazione di essere insopportabile quanto i suoi personaggi.

 

Per non far disperdere il poco calore della metropolitana, entro nel primo bar in cui mi imbatto all’uscita della stazione. All’interno, la dolcezza dell’aria mi stringe come un abbraccio rassicurante. Mi lascio trasportare fino alla fila che si allunga davanti al bancone, confusa da quella strana familiarità che trovo nei toni caldi e nelle poltrone imbottite. Ma dopotutto è un bar come se ne vedono molti a New York.

 

Sulla lavagna in alto, il menù elenca i drink di ogni grande metropoli, pensati per una clientela eclettica e cosmopolita. La prima volta che ho varcato la soglia di un locale simile, il giorno dopo il trasloco, mi sono detta che dovevano avere molto tempo da perdere, per fermarsi a bere delle cose così sofisticate durante la giornata.

 

“Buongiorno! Come posso aiutarla?”

 

Quando arriva il mio turno, la commessa ha il naso abbassato verso la cassa, pronta a digitare il l’ordine.

 

“Un caramel macchiato, per favore. Con molto caramello. E un supplemento di panna montata.”

 

Di tempo ne avrò un sacco, ora.

 

“Con carta?”

 

La domanda mi prende alla sprovvista. È da stupidi: certo che bisogna pagare. Ma sono uscita così in fretta, un attimo fa, che l’unica carta con me è quella del mio abbonamento della metro, infilata nella cover del cellulare.

 

“Scusi, io…”

 

Per impazienza o cortesia, la barista solleva il capo, aggravando il mio disagio. Strano. Ho la sensazione di conoscere quei grandi occhi blu, incorniciati da una frangia color mogano. Visibilmente turbata quanto me, la proprietaria si piega sul bancone con un’espressione di complicità sul volto.

 

“Ma che ci fai da queste parti?” sussurra lei.

“C… cosa?” balbetto.

“Anche tu hai avuto dei problemi con il trasporto? Il capo è furioso. Sai che siamo ancora blindati per l’avvicinarsi del Giorno del Ringraziamento!”

 

Il Giorno del Ringraziamento? Ma le foglie non cadono ancora dai rami! Mi volto per verificare attraverso la grande vetrata del bar, e ho un vuoto nello stomaco. Sul viale da cui provengo gli alberi sono spogli.

 

“Beh, dai, su” si spazientisce la barista, che mi prende per il braccio e mi fa aggirare il bancone con la forza. “Te lo faccio io il tuo macchiato, ma vieni di qua prima che il responsabile ti veda.”

 

Segue una serie di gesti confusi. Questa ragazza è un vero tornado: dopo appena qualche secondo, rimango ferma davanti alla cassa vicina, con un grembiule dai colori dell’insegna annodato dietro la schiena e i capelli raccolti con una pinza trovata nella tasca centrale.

 

Gran parte della fila si piazza subito davanti a me. Ascolto vagamente quello che il primo cliente cerca di dirmi, ancora troppo scioccata per reagire, quando risuona la campanella all’ingresso del bar.

 

Con l’indice sospeso sopra della cassa, guardo il cliente appena arrivato con un’andatura altezzosa. Senza preoccuparsi del giudizio altrui, scruta la sala con autoritaria sufficienza. All’improvviso mi manca il respiro.

 

Questo cliente non è un cliente qualunque.

 

È Andrew Williams.

 

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