Giulia Ungarelli - Contemporary Romance
Maxime, segnata dal crollo della famiglia e da un passato di bugie, si rifugia a Los Angeles per ricominciare. Vuole conoscere Lennon, il fratello che non sapeva di avere, ma l’attrazione per Blake, ex pugile e uomo ostile, sconvolge i … altro
“Biglietto.” Lo porsi all’uomo dietro al gabbiotto. Lui ne strappò un pezzo prima di restituirmelo. “Buona visione.”
Accennai un sorriso e passai i tornelli.
Dubitai che sarebbe stata una buona visione, non ero una fan della boxe e non sapevo nemmeno perché mi trovassi lì: stavo eseguendo gli ordini e basta.
Mia madre era stata chiara: “Vai a Las Vegas. Compra un biglietto per l’incontro Lennon vs Creag. Segui il match e attendi”. Cosa, non mi era dato saperlo. L’avrei capito, aveva detto.
La verità era che avevo smesso di capirla da tempo, ero incastrata nella sua vita e non sapevo come uscirne. I suoi casini si ripercuotevano su di me e non potevo fare altro che assecondare le sue richieste, finché non avessi terminato il college e avuto modo di allontanarmi da lei e mio padre.
Oltrepassai il pesante tendaggio di velluto nero e mi ritrovai nel bel mezzo del caos.
Il ring, al centro di una sorta di anfiteatro, spiccava sotto i riflettori e le tribune tutto intorno brulicavano di spettatori. Urlavano, conversavano e bevevano rendendo il passaggio per il mio posto un percorso a ostacoli.
Anche se ogni certezza su mia madre mi era stata strappata via con violenza, ero sicura che il pugilato non rientrasse nei suoi interessi. Quella competizione doveva essere una copertura e il mio compito era aspettare qualcosa, o qualcuno. Avevo paura di quello che mi avrebbero consegnato, speravo almeno che non si trattasse di droga, o qualsiasi altra cosa con cui avrei rischiato la galera. Dal volume della busta di denaro che custodivo nella borsa, in ogni caso, doveva essere una faccenda grossa.
Speravo almeno che mi rivelasse cosa mi nascondeva mia madre.
Mi accomodai sulla seduta numerata, a sinistra il posto era ancora vuoto, a destra un uomo con il cappuccio sulla testa era concentrato sul cellulare.
Mi guardai intorno, in cerca di un indizio, un dettaglio familiare o fuori posto, ma nulla di quell’accozzaglia di colori e voci mi suggeriva che aveva a che fare con Leonor.
Il mio cellulare vibrò nella tasca della giacca e lo tirai fuori.
Numero sconosciuto: Presta attenzione.
“Prestare attenzione a cosa?” bofonchiai stizzita.
“All’incontro di pugilato?”
Mi girai verso Mister Cappuccio, che non aveva sollevato la testa, e l’eco della sua voce roca mi provocò un brivido. Il suo profumo pungente mischiato all’odore di sigaretta mi stuzzicò le narici.
Non replicai, e fissai il messaggio di mia madre, o chi per lei. Forse qualcuno mi teneva d’occhio in quel momento. Nonostante l’impegno di mio padre per eliminarla dai giochi, Leonor era più partecipe che mai.
Stronza calcolatrice.
Non lasciava nulla al caso, e dovevo venirne a capo.
C’entravano i due partecipanti?
Nascosi il cellulare e guardai Mister Cappuccio, ma il viso era nascosto dalla felpa. “Chi è il favorito?”
“Creag ha più esperienza” rispose lui, scrollando un articolo di giornale sullo schermo. “Sfrutterà i punti deboli di Lennon e lo batterà al secondo round, al terzo se il ragazzino mantiene la concentrazione.”
“Sembri esperto.”
“È così.”
Quando abbassò il cappuccio e voltò la testa, mi ritrovai a trattenere il respiro.
La pericolosità nella voce la riscontrai anche nei suoi occhi scuri, nei lineamenti spigolosi e il naso imperfetto di chi aveva accusato molti colpi. La barba corta copriva le guance un po’ scavate e circondava le labbra ridotte a una linea. Doveva avere sui trent’anni e la piccola cicatrice in mezzo alle sopracciglia risaltava l’espressione accigliata.
Era affascinante, cupo, eppure non si era rivolto a me con arroganza. Sembrava quasi annoiato.
Mi infastidì lo stesso, dal momento che era stato lui a intromettersi nei miei affari.
“Staremo a vedere” lo fronteggiai, sicura delle mie idee – del tutto infondate.
Quando l’angolo della sua bocca si sollevò, un’inaspettata quanto sexy fossetta si palesò sulla guancia e mi si contrasse il basso ventre.
Guardai il ring a disagio.
Non mi capitava spesso di essere attratta da uomini che non fossero Preston, il mio ragazzo, e mi destabilizzò che accadesse in quell’occasione, mentre agivo alle sue spalle e infrangevo la promessa di non seguire più le direttive di Leonor.
“Sei fuori posto come una barbie in un museo della Guerra d’Indipendenza. Sei almeno maggiorenne?”
Drizzai la schiena infastidita. “Tu sei fuori luogo e basta. Ti prendi troppa confidenza per essere un estraneo.”
“Hai ragione.” Un guizzo gli animò lo sguardo, prima di indossare di nuovo un’espressione indecifrabile. “Non sei di certo un’indifesa.”
Non capii se lo disse per schernirmi o no, immaginai di sì, ma lo accettai per porre fine alla conversazione. Quell’uomo mi metteva in soggezione, mi attraeva e respingeva con la stessa intensità.
Forse… era davvero lui l’unico dettaglio di quell’assurda circostanza ad aver attirato la mia attenzione.
Leonor mi aveva detto di assistere all’incontro e attendere; se Mister Cappuccio aveva a che fare con lei, avrebbe fatto la sua mossa nel momento opportuno.
“Non prendere iniziative, Max. Se finisci nei guai non potrò aiutarti. Esegui gli ordini e basta.” Le raccomandazioni di mia madre mi fornirono la concentrazione necessaria per starmene ferma e in attesa.
Nella successiva mezz’ora, né io né Mister Cappuccio pronunciammo una parola. Lui tornò a smanettare con il cellulare, io mi studiai intorno con impazienza.
Quando finalmente la voce del presentatore risuonò dagli altoparlanti e le luci si spensero, l’euforia dei partecipanti aumentò il mio disagio.
L’incertezza mi terrorizzava, le amorali scelte di Leonor mi terrorizzavano, il futuro mi terrorizzava.
Essere in terza fila a un incontro di boxe a miglia di distanza da casa, all’insaputa di Preston e mio padre, era di sicuro il principio di un disastro annunciato.
Afferrai una ciocca bruna che mi scendeva sulla spalla e la attorcigliai sulle dita.
Non avrei dovuto accettare l’ennesima pazzia di Leonor, era ovvio che non avessi la sua stoffa, che non fossi fatta per i sotterfugi e le missioni in incognito.
Odiavo tutto quello, odiavo i miei genitori e non potermi dissociare dalle loro azioni. Ero colpevole del disastro che avevano combinato quanto loro, perché non li avevo fermati.
Non mi restava che affrontarne le conseguenze.
Il nome “Lennon” gridato dal microfono accese gli animi e un boato di urla e applausi rimbombò tra le mura dell’arena. Il cono di luce abbandonò il presentatore in piedi al centro del ring per accogliere il pugile che faceva il suo ingresso da dietro una tenda rossa. Lo osservai sfilare con i pugni alzati e rispondere alle ovazioni.
Era giovane, con la corporatura muscolosa ma non in maniera eccessiva, sembrava esile in confronto agli atleti che mi era capitato di vedere in tv o sui social. Emanava sicurezza, però, e percepivo una strana energia guardando il suo sorriso sfrontato. Fu destabilizzante, perché mi parve familiare.
Quando lo raggiunse l’avversario, un omone grosso e con una maschera sul viso, ebbi la sensazione che Mister Cappuccio avesse ragione.
Dopo che il presentatore lasciò la pedana, i due si fronteggiarono, i riflettori puntati su di loro. Creag fissò Lennon con determinazione, l’altro rispose con un’espressione feroce.
Il gong risuonò e il combattimento iniziò. Il mio cuore accelerò i battiti a ogni pugno sferrato e schivato. Non me ne intendevo di boxe, ma alla fine del sesto round Lennon perse vigore, all’ottavo fu messo K.O. con un colpo che mi fece male solo a guardarlo.
La folla esplose, la voce roca e pregna di frustrazione di Mister Cappuccio mi arrivò alle orecchie nonostante il fragore: “Cazzo!”
La replica mi scivolò dalla lingua, mentre mi scrutavo intorno alla ricerca di un qualsiasi segnale: “Avevo capito che tifassi per Creag”.
“L’hai dato per scontato.”
Lo guardai, lui fissava il ring. “Sapevi che Lennon avrebbe perso.”
“Questo non significa che non creda in lui. Prima o poi vincerà.”
Il cellulare squillò e contrassi i denti.
Numero sconosciuto: Recati all’Hampton Inn Las Vegas Strip South. Fornisci il tuo nome al receptionist e dagli la busta. Lui saprà cosa fare.
Ne avevo abbastanza di quella caccia al tesoro, ero stufa di farmi sballottolare a destra e a sinistra come una pallina da ping-pong.
“Sai dirmi dov’è l’Hampton Inn Las Vegas Strip South?” chiesi.
Il silenzio prolungato di Mister Cappuccio mi portò a cercare il suo viso. Gli occhi scuri e indagatori mi fissavano con insistenza. “Sì, su Giles St. È l’hotel in cui alloggio.”
Spalancai le palpebre. “È una coincidenza inquietante.”
“Per me” controbatté. “Io pernotto in quell’albergo ogni volta che sono a Las Vegas. Assisto ai combattimenti in quest’arena, in questa seduta, da anni. Non sono io quello fuori posto.”
La scintilla di divertimento nelle sue iridi mi contrasse lo stomaco.
“Conosci Leonor?”
Il cipiglio che gli sformò i lineamenti mi rivelò la sua confusione. “No, non credo. Potrei essermi scopato una Leonor nella mia vita, ma ora non me lo ricordo.”
L’istinto mi suggerì che non c’entrasse nulla con lei e mi pentii di averla nominata con tanta superficialità. Mi alzai, impaziente di lasciare quel luogo e porre fine a qualsiasi cosa avesse architettato mia madre per torturarmi.
Lui non si mosse, ma il suo sguardo sfacciato percorse il mio corpo facendomi formicolare la pelle.
“Addio” dissi sbrigativa.
Mi rivolse un breve cenno con la testa. “Addio.”
Arrivai all’Hampton Inn Las Vegas un quarto d’ora dopo e la facciata colorata mi diede il benvenuto. Scesa dal taxi, sollevai gli occhi sulla tettoia di legno con un po’ di agitazione addosso, ma non ci pensai e oltrepassai le porte scorrevoli, ritrovandomi in un atrio dai colori chiari e dallo stile moderno. La moquette attutì i miei passi, mentre mi dirigevo alla reception.
L’uomo calvo e barbuto dall’altra parte mi rivolse un sorriso gentile, che però mi diede i brividi. Forse, per via del guizzo malizioso nello sguardo. Sulla targhetta fissata sulla tasca della giacca spiccava il nome Miles. “Buonasera, signorina.”
“Buonasera.” Lanciai un’occhiata in direzione del bar, un paio di persone occupavano il bancone e un tavolino sotto la tv. Nessuno badava a me. Tornai su Miles e mi limitai alle direttive del messaggio. Sfilai la busta di contanti dalla borsa e la posai sul bancone. “Sono Maxime.”
La sua espressione affabile scomparì e nascose la mazzetta dentro alla giacca. Sparì nella stanza alle sue spalle, un ufficio ipotizzai, e ne uscì pochi secondi dopo con un’altra busta, di quelle marroni per documenti, e me la passò con discrezione. Con la sua stessa velocità la infilai nella borsa.
“Quello che lei ha chiesto è lì, non so altro” proferì pacato, riferendosi a mia madre, poi il sorriso cordiale tornò a tirargli le labbra e si girò per recuperare la chiave dalla bacheca. Ci impiegò qualche secondo, parve indeciso su quale camera assegnarmi, poi mi porse una card magnetica. “Terzo piano, stanza numero 303. Domattina alle otto un autista la porterà in aeroporto. Buon pernottamento all’Hampton Inn Las Vegas.”
Lei aveva pensato proprio a tutto.
“Grazie.”
Sistemai lo zaino sulle spalle e presi l’ascensore, svuotata di ogni energia, con il peso del contenuto della busta che gravava sulla coscienza.
Ero certa di avere tra le mani informazioni che avrebbero distrutto la vita a qualcuno. Speravo almeno che lo meritasse, perché non avrei retto il senso di colpa.
Ero a Las Vegas per quello, era il prezzo da pagare per ottenere risposte, e non c’era spazio per i rimorsi. Tra i vari segreti di Leonor ce n’era uno che mi riguardava; confessarmelo era stato il suo regalo di compleanno e l’arma per convincermi a partire, e dovevo sapere cos’era. Speravo che mi aiutasse a liberarmi di lei, che fosse la mia occasione per fuggire e ricominciare.
Il campanello tintinnò e le porte di metallo si aprirono su un corridoio asettico; con le sneakers calpestai la stessa moquette grigia della hall e l’ascensore ripartì. Davanti alla mia camera, fissai la porta di legno in uno stato di completa apatia.
Non sentivo nulla da molto tempo, ormai.
Mi sentivo niente da troppi anni.
I miei genitori mi avevano spezzata così in profondità che ogni sentimento bello e genuino era volato via insieme alle mie certezze e ai punti fermi.
Il rancore era la catena che mi legava a loro e la paura mi rendeva impossibile combattere contro quel cappio.
Ero alla loro mercé, mi avevano resa insignificante.
È solo per questo che sono qui.
Lo scampanellio dell’ascensore squarciò il silenzio e mi scivolò la card magnetica dalle dita. Mi abbassai per raccoglierla e delle voci maschili riempirono l’aria.
“Ho cambiato idea” diceva uno. “Aspetto che Miles finisca il turno al bar, poi andremo al casinò per alleviare la delusione. Sei sicuro di non voler venire?”
“Sono stanco. Non esagerare, domattina ripartiamo presto.”
Mi girai richiamata da qualcosa di familiare e gli occhi si posarono sull’uomo che fissava le porte di metallo richiudersi. La felpa nera gli copriva il torace, ma il cappuccio lasciava la testa scoperta. Teneva le mani nelle tasche della tuta.
Le sue sopracciglia si avvicinarono quando si accorse di me. Gli ci vollero pochi istanti per riconoscermi, e la linea piatta sulle sue labbra si inclinò appena. “Ci incontriamo di nuovo.”
Conosceva Miles, che faceva affari con Leonor, ed era la seconda volta in poche ore che me lo trovavo davanti. Mister Cappuccio aveva mentito riguardo a mia madre? “Alloggi davvero qui.”
Sfilò dalla tasca una mano e sventolò in aria una chiave magnetica. “Stanza 301.”
Quella di fianco alla mia. Mi sfuggiva qualcosa?
“303.”
“Che coincidenza.” Si fermò davanti alla porta, mi fissò indecifrabile. “Quanti anni hai?”
“Ventuno.” Da due giorni.
“Sei una ragazzina.” Il tono cupo mi rese un ammasso di brividi e carne accaldata.
Inseguii quella sensazione come un assetato nel deserto, desiderosa di fuggire dalla mia identità. Quello che rappresentavo ed ero. Per lui ero un’estranea e, cosa più importante, non era Preston. Non era l’uomo che mio padre aveva scelto per me e per cui non sentivo più di provare amore.
Feci un passo avanti, i suoi occhi non mi mollarono un istante. “No, che non lo sono.”
Avvicinò la card alla serratura e la porta scattò. “Buonanotte, numero 303.”
Contrassi i muscoli delle cosce e deglutii a vuoto. Quelle parole furono eccitanti, seppur innocue. Lo sguardo pericoloso lo era.
“Notte.”
Sgusciai dentro con le gambe tremanti e il cuore in fibrillazione. Mi lasciai andare contro il battente e fissai il letto e la scrivania davanti a me senza guardarli davvero. Feci cadere a terra lo zaino e la borsa, e la tensione accumulata in quella giornata mi abbandonò di colpo.
Udii un getto d’acqua provenire dall’altra parte del muro.
Mister Cappuccio si stava facendo la doccia…
Scossi forte la testa per scacciare il pensiero di lui nudo e mi chiusi in bagno. Decisa a lavarmi, mangiare e poi dormire.
In attesa del mio rientro in Montana e dell’incontro con mia madre.