Cuori in inverno - Webnovel - Narae

Cuori in inverno

Paola Garbarino - Contemporary Romance

✨ Una webnovel narae selectIl meglio delle autrici self selezionate da narae, in collaborazione con il Festival Romance Italiano.Levi è un ragazzo perduto, con un grande segreto che riguarda la ragazza che aveva al liceo. E che aspettava un figlio … altro


40 Episodi

Episodio 1

 

[TW]

 

I temi trattati in questo episodio potrebbero urtare la sensibilità di alcuni lettori. Il contenuto è rivolto a un pubblico adulto e consapevole.

 

“Non stavo andando da nessuna parte

Quando ho guardato nei tuoi occhi.

Proprio quando meno me lo aspettavo

Hai illuminato la stanza.

Ora io sono tuo,

Sono tuo.

Tu mi dai una ragione

Che non sapevo stessi cercando.

Sono tuo.

Ora sono tuo,

Sono tuo.”

– Jack Savoretti, I’m Yours

 

Prologo - Levi, Phuket, passato

 

“Tutti dicono che l’amore fa male, ma non è vero. La solitudine fa male. Il rifiuto fa male. Perdere qualcuno fa male.”

– Oscar Wilde

 

Alcuni dicono che questo luogo sia un paradiso. Immagino che lo si possa definire così, se si guardano soltanto le spiagge sabbiose, l’acqua cristallina, la natura rigogliosa, e non il turismo di massa e per nulla etico, i palazzoni, il traffico.

 

Ma il punto non è quello. Non lo è mai. Perché uno come me ha capito che il paradiso e l’inferno li abbiamo dentro.

 

Il nostro inferno è lì con noi, non c’è modo per lasciarlo indietro, per seppellirlo, per obliarlo.

 

Non importa dove siamo.

 

Non importa quanto lontano scappiamo.

 

Non importa quanto forte teniamo chiusi gli occhi.

 

E se gli inferi ce li ho addosso, se mi infestano come uno spettro in una casa abbandonata, allora per me un posto vale l’altro.

 

Questo o le altre mete degli ultimi anni.

 

Anni buttati, come la mia vita.

 

Una vita che non mi merito di vivere.

 

Perché sono colpevole.

 

Ho cercato di dimenticare ma certe cose non è possibile allontanarle, ci si può soltanto convivere ma io non sono forte abbastanza.

 

Sono un vigliacco.

 

Un maledetto vigliacco.

 

E ora sto annegando nel mio vomito dopo aver ingurgitato alcol e droga.

 

“Cazzo, Levi! Se vuoi crepare va’ a farlo a casa tua.”

 

Riconosco la voce di Samai, la sua pronuncia inglese mutuata dalla lingua madre thailandese.

 

Cerca di sollevarmi ma è magrolino e io non sto collaborando.

 

Reggo gli eccessi molto peggio di lui, è lampante, visto che io sono riverso a terra e lui è abbracciato a una tipa che gli ha promesso di fargli provare anche della “roba nuova e buonissima”.

 

A me è bastata quella vecchia. Sono a pezzi. L’unica cosa che riesco a muovere sono le palpebre.

 

No, riesco anche a muovere le labbra: “Lasciami stare…” biascico.

 

Nessuno può salvarmi.

 

Samai neppure mi soccorre, se non spingendomi un po’ più in là col piede, in modo che la mia faccia non sia nella pozza acida.

 

“Il tuo amico doveva provare la mia, di roba” odo l’inglese stentato della donna che è con lui, l’accento è dell’Est ma non lo riconosco e non me ne frega un cazzo.

 

Il mio amico deve smettere di cercare di suicidarsi, almeno a casa mia.”

 

I loro passi si allontanano.

 

Il mio amico.

 

Un tempo ne avevo, di amici.

 

Amici veri.

 

Di quelli a cui importa davvero se stai bene, che ti cercano, che tentano di aiutarti.

 

Ma io non ho permesso loro di aiutarmi. E alcuni mi hanno odiato per le mie colpe.

 

Un odio meritato.

 

Resto lì.

 

La festa va avanti.

 

Odo i suoni cacofonici e gli odori di un festino a base di droga, alcol e sesso.

 

Stanotte ho provato tutto, tranne l’ultimo. Tanto, in questo stato non mi verrebbe nemmeno duro.

 

E sono stanco di riempire una donna cercando di colmare una voragine dentro di me che non si riempie mai. 

Qualcosa che può essere riempito solamente in un modo, qualcosa che ho perduto.

 

Non mi muovo.

 

Non ne ho le forze.

 

E neppure il coraggio.

 

Tanto, dove potrei andare? In quel buco di stanza infestato dalle blatte, di cui pago l’affitto lavorando come cameriere in uno squallido bar dove turisti vecchi e bavosi approcciano ragazzine?

 

Resto con la faccia sul pavimento. Almeno è fresco e mi dà un po’ di sollievo dalla calura umida di Phuket.

 

Resto.

 

Resto e tutto si fa ancor più nebuloso.

 

E poi sono con lei.

 

La sua cortina di capelli biondi mi solletica mentre si china su di me. Vengo avvolto dal suo odore, dal suo profumo, dal suo calore, dalla sensazione magica ed elettrica che ho sempre provato quando era vicina a me, pure quando non ci sfioravamo neppure, anche se mi arrivava alle spalle, sentivo che era lì, come se fosse il mio magnete e io il pezzo di arido ferro che ne veniva irresistibilmente attratto.

 

Voglio restare qui con lei, in questo momento. Mi ci aggrappo con tutto me stesso, ciò che è rimasto di me.

 

La sua mano mi accarezza una guancia.

 

E io divento consapevole che sto sognando.

 

Perché è un sogno per forza se c’è lei.

 

“Levi” mi chiama.

“Levi.”

 

Ritorno nel mio incubo quotidiano e batto le palpebre per snebbiarmi, vorrei restare attaccato al sogno, sentire ancora i suoi vaporosi capelli su di me, la carezza dolce, la sua voce.

 

“Levi.”

 

A chiamarmi non è lei.

 

Lei non chiamerà mai più il mio nome.

 

Kasem, il figlio di Samai, mi sta scrollando per una spalla.

 

Mi sollevo.

 

Cazzo, mi fa male la testa da impazzire! La luce del sole mi ferisce gli occhi e accentua le fitte.

 

Mi do un’occhiata intorno mentre tento di tornare sul pianeta Terra.

 

Il festino deve essere finito chissà quando, l’appartamento è un casino ma non ci sono persone in giro, solo i resti di quello che erroneamente molti ritengono che sia divertimento.

 

Se il figlio di Samai è uscito dalla propria stanza, significa che è giorno, che sta per andare a scuola. O magari è già tornato, chissà quanto ho dormito.

 

Un bambino di sette anni praticamente indipendente, che si alza, si prepara la colazione, si veste e va a scuola da solo.

 

La madre non so chi sia, in questo anno e mezzo da quando sono a Phuket e ho fatto amicizia con Samai, non l’ho mai vista né ne ho sentito parlare.

 

“Levi, papà non si sveglia.”

 

Mi sforzo di capire quel poco di thailandese che ho imparato.

 

“Papà non si sveglia.” Mi tira per un lembo della maglietta lurida, cercando di farmi alzare.

 

Annego nei suoi occhi castani, così profondi e lucenti ma già tarlati da una consapevolezza adulta che non dovrebbe appartenergli.

 

Un bambino che ha già visto e capito troppo.

 

Un bambino che meriterebbe sicurezza, pasti caldi, vestiti puliti, che dovrebbe giocare anziché essere costretto a crescere così velocemente.

 

Un bambino come ero io, con una famiglia che lo amava, giocattoli e vacanze.

 

“Papà non si sveglia” ripete come se non fosse capace di dire altro.

 

Papà sarà strafatto penso.

 

Mi alzo e impiego qualche secondo per far smettere alla stanza di girare.

 

Mi prende la mano, come se fosse lui l’adulto e io il bimbo angosciato. Mi sospinge a seguirlo e i miei piedi gli ubbidiscono.

 

La porta della camera di Samai è aperta. Il letto è spinto contro un angolo e lui sta dormendo a pancia sotto, la faccia voltata verso la parete cieca.

 

Nudo.

 

Oltre che avergli dato della droga, la tipa di ieri sera deve avergli concesso anche qualcos’altro.

 

Mi avvicino, lo scrollo.

 

“Non si sveglia” ripete il piccolo.

 

Lo scrollo ancora.

 

C’è qualcosa che non va.

 

Qualcosa che ho già visto e che temo: l’immobilità assoluta.

 

Vorrei voltarmi e andarmene senza sapere. Vorrei nascondermi come se questo fosse un gioco. Chiudo gli occhi, come facevo da piccolo quando credevo che bastasse, che, se io non vedevo gli altri, allora loro non potevano vedere me.

 

Pur sapendo che non si può scappare dalla realtà, ci provo comunque, come uno stupido, continuando a tenere gli occhi serrati.

 

“Papà, papà, svegliati!”

 

Li riapro e accetto la consapevolezza di ciò che troverò.

 

Volto Samai.

 

Kasem grida, lacerandomi quel poco d’anima che mi è rimasto.

 

Ha gli occhi sbarrati e la bava alla bocca.

 

Il bambino si slancia su ciò che resta del padre, chiamandolo in un lamento che mi scuote e mi fa tornare in me di colpo.

 

Vedo quel figlio chino e piangente sul corpo del genitore morto. Un genitore che non era un buon padre ma non era neppure pessimo. Un bambino che non ha una madre accanto e che adesso ha perso anche il padre.

 

Un bambino orfano di entrambi i genitori, coloro che ci portano nel mondo ma che dovrebbero anche vivere abbastanza da condurci attraverso.

 

Qualcosa mi colpisce talmente forte che mi ritrovo in ginocchio.

 

Kasem continua a piangere e a chiamare un padre che non risponderà più.

 

Quel guscio vuoto potevo essere io.

 

Lo attiro a me, annichilito, lui si rannicchia contro il mio torace, le sue lacrime mi bagnano la pelle.

 

Si confondono con le mie, perché anch’io sto piangendo.

 

Non solo per Samai e Kasem, ma per tutto.

 

Per i miei errori, il mio dolore, le mie colpe.

 

E capisco che è ora di tornare a casa.

 

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