Giulia Ross - Fantasy Romance
[TW] Liliane si risveglia prigioniera in una cella buia, priva di memoria. Efram, uno dei suoi carcerieri, sembra essere la sua unica speranza. Ma chi è davvero Liliane? Mentre tenta di scoprire verità sepolte e di fuggire, tra torture e … more
Stai cadendo.
È solo questione di istanti.
L’aria ti colpisce, gelida e violenta.
Tutto attorno si dissolve in un turbine indistinto.
Stai cadendo.
La notte ha appena spalancato la sua bocca…
Lascia che ti ingoi. Lascia che tutto scompaia.
Ti sentirai finalmente libera!
Mi sveglio di soprassalto, il cuore che batte impazzito, come se stessi ancora precipitando.
La mia mente cerca invano un appiglio nell’aria rarefatta. Mi sento soffocare, annaspo come se fossi sott’acqua. Tossisco più volte, affamata d’ossigeno.
Mi fa male tutto. A fatica, cerco di aprire gli occhi, ma qualcosa di viscoso mi serra le palpebre.
Che diavolo sta succedendo?
Cerco di non agitarmi. Rimango immobile, nel buio della cecità, affidandomi ai sensi che mi restano. L’olfatto, l’udito… Chi mi ha insegnato a fare così?
L’odore di chiuso e di muffa mi riempie i polmoni, invadendoli come un veleno. Vorrei vomitare.
Cosa mi è successo?
Il silenzio è assoluto.
Dove mi trovo?
“Calmati, Liliane” sussurro a me stessa.
Inspiro piano. L’aria è pesante e ferma. Devo essere al chiuso. Muovo lentamente gli occhi sotto le palpebre. Non appena avverto una minore resistenza, li apro sperando di trovare almeno una traccia di luce. Niente. Il buio ha inghiottito ogni cosa al di fuori di me.
L’oscurità mi avvolge, stringendomi in una morsa. Solo quando cerco istintivamente di alzarmi, di muovere gambe e braccia, mi accorgo di essere bloccata. Legata a un letto.
Sono prigioniera?
Un’ondata di panico mi travolge, rapida come un fiume in piena. Inizio a tirare le catene, a scalciare in ogni direzione, ma mi è impossibile liberarmi. Il metallo sbatte contro il letto e ogni mio movimento si riduce a un respiro affannoso.
“Aiuto!” urlo con tutta la forza che ho, ma l’unica risposta che odo è la mia eco che rimbalza contro le pareti. “Aiuto!”
La gola mi brucia e i polmoni sono in fiamme.
Niente.
Inspiro più profondamente e grido un’altra volta, lacerando quel silenzio impietoso, come se fosse la mia ultima battaglia per la vita.
Non arriva alcuna risposta.
La mia voce si disperde tra le mura fredde e spesse che mi circondano. Esausta, mi lascio andare.
Solo allora comincio a sentire un pizzicore sul viso. Qualcosa di rigido mi copre la faccia, lasciando liberi solo gli occhi, le narici e la bocca.
Perché mi hanno messo una maschera?
Le mie mani sono libere quanto basta per toccare la superficie del letto su cui sono sdraiata. Le lenzuola sono ruvide, ma emanano una fresca fragranza. Un contrasto netto con l’aria stantia che mi circonda.
Almeno mi hanno concesso un giaciglio pulito. Una, seppur magra, consolazione.
I minuti sembrano allungarsi all’infinito. Il buio, sempre più intenso, pare divorare ogni mia speranza di orientamento. Resto immobile, in ascolto, ma il silenzio è assoluto.
Poi, dopo un tempo che mi sembra eterno, la mia mente si acquieta, sopraffatta dalla stanchezza. Non so dove mi trovo né perché sia stata legata, ma so che devo provare a concentrarmi e ricordare cos’è successo. La confusione è l’ultima cosa di cui ho bisogno.
Chiudo gli occhi.
Ignoro la paura, la maschera, le catene. Inizio a contare all’indietro partendo da cento.
100…
99…
98…
97…
Mi trovo davanti a una villa. Alta, imponente, la pietra chiara e le grandi finestre a riflettere la luce del sole. Fa caldo e il delicato profumo estivo mi inebria.
Vengo investita da una sensazione di sicurezza, di serenità. Respiro profondamente l’aria pulita.
82…
81…
80…
Il giardino si estende davanti a me e l’erba mi sfiora le caviglie. Il cielo è terso, immenso.
Cammino a piedi nudi, senza fretta, verso la porta di quella casa che ora so essere la mia. L’odore del mare, il vento che mi accarezza dolcemente… Tutto trasmette pace. Da lontano si avverte il suono dei gabbiani e delle onde che s’infrangono sugli scogli.
Mi chino a raccogliere un fiore giallo, dai petali sottili. Il suo polline mi macchia le dita. Un sorriso si fa largo sul mio viso, il primo dopo tanto tempo.
La porta della villa si apre con un suono secco e da lì esce un ragazzo vestito di bianco.
“Che cosa stai facendo, Lily?” mi chiede avvicinandosi. È alto, con i capelli scuri e l’aspetto di chi non ha mai temuto nulla nella vita.
“Raccolgo i fiori di Elisabeth” rispondo, porgendogliene uno.
Lui lo prende, lo rigira tra le dita e lo annusa sorridendo.
“Ha decisamente il suo profumo” dice, gli occhi verdi colmi di una tristezza che non riesce a nascondere. “Elisabeth mi manca” aggiunge, quasi a sé stesso.
“Perché ci stiamo nascondendo?” chiedo preoccupata.
Il ragazzo lascia cadere il fiore sul prato. Christopher. Ora ricordo il suo nome.
Lui scuote la testa, senza rispondere. Camminiamo insieme per qualche metro, in silenzio, in direzione degli alberi. I pini marittimi ci proteggono, alti e imponenti, come guardiani.
Mi avvicino a uno di quei tronchi, massicci e ruvidi. La resina scorre sulla corteccia e il suo profumo balsamico mi avvolge.
“Lei ora dove si trova?” domando, ritraendo bruscamente la mano.
Christopher si guarda le scarpe di cuoio, che affondano nel terreno morbido.
“Ce lo farà sapere appena potrà” replica pensieroso. “Ci controllano. Siamo ricercati, lo sai, Lily.”
“Ma chi ci vuole fare del male? Noi non abbiamo fatto niente a nessuno” protesto.
A quelle parole, mi afferra il viso tra le mani, fissandomi con intensità. I suoi occhi si specchiano nei miei, così profondi che mi sento come travolta dalle onde del mare.
“È meglio che tu non lo scopra mai” mormora criptico.
Le sue labbra si avvicinano alle mie e il mio cuore batte forte, come se volesse uscirmi dal petto.
Chi è lui per me? Perché avverto così tanto calore a quel contatto?
Un colpo.
Poi un altro. Il rumore di una chiave che gira nella toppa, inceppandosi.
Tutte le immagini svaniscono in un attimo.
Una luce penetra nell’oscurità, accompagnata dal sofferente cigolio di una pesante porta arrugginita. I miei occhi si fissano sul bagliore sprigionato da una candela posta su un piattino di metallo. La mano che la sorregge è avvolta in un guanto scuro di pelle.
“Chi c’è?”
La mia voce trema e il cuore mi martella nelle orecchie.
Il mio aguzzino avanza, silenzioso. Da fuori, una voce aspra gli urla qualcosa in una lingua che non comprendo.
Quindi sono in due…
“Vi prego…” mormoro, confusa.
La luce si avvicina e le pareti di pietra, segnate da crepe, si rivelano in tutta la loro desolazione.
“Vi prego…” ripeto, la voce spezzata. Quando il volto della figura incappucciata si fa finalmente nitido, un’ondata di terrore mi travolge. Grido.
Lui sobbalza, sorpreso dalla mia reazione, ma non si ritrae.
Indossa un lungo grembiule da macellaio e una maschera spaventosa, che lascia scoperta solo la bocca. Mi concentro per pochi secondi su quel dettaglio: labbra carnose, insolitamente rosee. Il suo respiro affannato e pesante riempie la stanza. Resta fermo mentre io lo guardo atterrita. Sembra mi stia studiando con attenzione: non è solo curioso, ma anche impaurito.
Improvvisamente, una voce bassa e gutturale irrompe nel silenzio. Il mio carceriere si volta, incitato dal complice fuori dalla porta. Poi, velocemente, sistema qualcosa accanto al letto.
Una torcia a olio proietta luci tremolanti sulle pareti, illuminando la cella tetra in cui mi trovo: quattro mura spoglie e logore, niente finestre. Solo una porta lontana da me. Sono in una prigione, non c’è alcun dubbio.
“Io… Io…”
La mia voce è niente più che un sussurro flebile. Il ragazzo incappucciato però mi ferma, poggiandomi un dito guantato sulle labbra. Non vuole che parli. O forse vuole che risparmi le forze?
La testa mi scoppia e il dolore alla nuca è insopportabile.
“D-devi stare f-ferma” balbetta, ritraendo la mano.
Sentendolo parlare capisco che è giovane.
“Perché? Perché sono qui?” mormoro, sperando in una risposta.
Lui scuote la testa. Un rumore di passi lo fa voltare di scatto.
L’uomo con il timbro gutturale è adesso visibile. È alto e robusto, molto più grosso del primo. Indossa lo stesso cappuccio di pelle ma, al posto del grembiule da macellaio, ha un lungo camice bianco e immacolato. Le labbra, sottili e livide, si arricciano in un’espressione indecifrabile.
Le rughe sul mento e sul collo suggeriscono che è molto più vecchio.
“Tienile il braccio” ordina al ragazzo con un tono che non ammette repliche.
L’altro annuisce e mi afferra il braccio sinistro, premendolo contro il materasso.
“Cosa mi volete fare?”
Il panico mi sale in gola, ma nessuno dei due risponde.
Il dottore fruga nel taschino del camice e ne estrae una grossa siringa.
Mi vogliono drogare?
“No… No, vi prego!” Cerco di divincolarmi, ma il ragazzo, per quanto più minuto dell’altro, ha una presa d’acciaio.
“S-stai ferma. Il D-dottore deve p-prendere un po’ di s-sangue.”
Il dottore?
“Se t-ti agiti, ti farai m-male.” La sua voce nasconde in sé una strana dolcezza, che mal si addice alla maschera che indossa. Né a quello che sta facendo.
Scuoto la testa, ma non posso fare nulla. Una lacrima mi scivola lungo la guancia mentre l’ago mi trafigge la pelle. Il dolore è minimo, ma l’impotenza è insopportabile.
Guardo il sangue colare lento nella siringa.
Con lui sento che mi stanno portando via anche qualcos’altro. Tutte le domande senza risposta mi affollano di nuovo in testa.
Perché mi hanno portata qui?
Perché mi prelevano il sangue?
Dov’è Christopher?
Il dottore estrae l’ago lentamente, osserva il campione con un’espressione disgustata e fa un cenno al ragazzo, prima di uscire dalla cella.
Ora siamo di nuovo soli.
Il giovane mi lascia il braccio e tira fuori qualcosa dalla tasca del grembiule.
“T-ti disinfetto” mormora, quasi volesse evitare che l’altro uomo lo senta. “Anche se non ti s-serve.”
Passa un batuffolo imbevuto di una soluzione alcolica sulla puntura, strofinando con delicatezza finché la pelle non torna pulita.
Io non riesco a smettere di piangere. Calde lacrime mi inondano il viso sotto la maschera.
“Ti prego” ripeto, ora che lui è vicino.
“N-n-non piangere” sussurra ancora. “N-non ti ha f-fatto troppo male, vero?”
La sua domanda mi sorprende. Si preoccupa per me?
“Perché mi avete portata qui?” insisto, sperando nella sua pietà.
“Non p-posso rispondere a q-questa domanda” dice lui con una nota di tristezza. Sospira e infila il batuffolo sporco nella tasca del grembiule. “C-cerca di dormire. Ti serve r-r-riposare, credimi.”
Si volta per andarsene, ma io inizio a dimenarmi, facendo stridere le catene e attirando di nuovo la sua attenzione.
“Per quanto mi terrete qui? Puoi dirmi almeno questo?”
Il ragazzo si gira verso di me, ma non risponde. La rabbia s’impossessa di me all’istante.
“Non ho fatto del male a nessuno! Non ho fatto niente! Perché sono qui? Perché?!” grido, lasciando esplodere tutta la mia ira. È l’unica cosa che mi è rimasta e devo usarla.
“S-se fai c-così, il dottore t-tornerà qui e s-si arrabbierà” replica lui, senza scomporsi.
“Ma io non ho fatto niente” ripeto, come fossi una bambina.
Lui si riavvicina.
“T-tu no” dice, con le labbra che tremano. “L-la tua f-f-famiglia sì.”
“Efram!”
La voce del dottore tuona alle sue spalle. Efram si volta di scatto, conscio di aver rivelato qualcosa che non doveva.
“S-s-signore.”
“Il cloroformio. Presto!”
Il dottore gli porge malamente un panno. Il cuore mi si stringe. Non appena Efram me lo schiaccia sul volto, tutto diventa nero.