Valerie Notari - Fantasy Romance
Alyla viene da un mondo distopico e futuristico, Natan da uno arcano e medievale. Legati da misteriose visioni, intraprendono un pericoloso viaggio dagli angoli opposti di un continente devastato dallo scontro fra le loro civiltà. Dovranno superare ostacoli insormontabili e … more
Culla di Ordhar
23 Giugno 2590 epm
Il bancone da lavoro tremò, facendo tintinnare le provette con i campioni. Poi fu il turno delle finestre, che produssero un rumore sinistro. Le apparecchiature sulle mensole di metallo si agitarono come dotate di vita propria. Seduto su uno sgabello d’acciaio, il dottor Thane Callin si guardò intorno preoccupato.
Un altro terremoto.
Durò quasi un minuto. Quando il tremore cessò, nella stanza regnava un silenzio irreale. A quell’ora il laboratorio era illuminato soltanto dal freddo bagliore delle lampade al plasma, che ronzavano incastonate nel soffitto basso. Thane scosse la testa, forzando la mente a concentrarsi: doveva tornare al lavoro. Si aggiustò sul naso gli occhiali a pince-nez e si infilò il guanto di controllo in fibra di silicio, avvertendo il fastidioso pizzicore delle placche conduttrici sotto i polpastrelli.
Un’occhiata alla vetrata che dava sul corridoio di servizio: vuoto.
“Richiamare sequenza ventuno-ottantasette.”
Il computer eseguì, proiettando sul tavolo l’ologramma di un filamento di dna. Segmenti di diversi colori si avvitarono fino a formare una spirale che fluttuò davanti allo scienziato, riflettendosi nelle sue lenti come un arcobaleno arrotolato. Un gesto della mano e l’immagine si ingrandì, evidenziando la struttura chimica di ciascun gene.
“Mostrare risultati del test sul campione tre.”
A fianco della sequenza, si materializzò l’immagine al microscopio di un tessuto organico. Thane scosse il capo prima ancora che la voce metallica del computer annunciasse: “Riduzione metastasi inferiore all’uno per cento.”
“Dannazione!” esclamò, sfilandosi il guanto e scagliandolo contro la finestra che affacciava sul panorama della capitale illuminata. L’ologramma delle cellule cancerogene gli galleggiava di fronte, come a sbeffeggiarlo.
“La riduzione delle metastasi non è significativa, purtroppo.”
Il primario ti guarda con aria grave. Leanne, al tuo fianco, ti stringe la mano. Avverti il piccolo cerchio d’oro della fede nuziale di lei tremarti fra le dita.
“Quindi è finita.”
La rassegnazione nella voce di tua moglie è come uno spillo conficcato nello stomaco.
“Le prescriverò una terapia contro il dolore.”
Sposti lo sguardo dal cappello di lana che copre il cranio glabro di Leanne al volto composto e scavato del medico. La vostra ultima speranza, ormai in fumo.
“Stronzate! Ci sono le staminali, potete provare quelle. Il metodo di Lee ha fatto miracoli anche in pazienti terminali!”
Il primario si guarda intorno nervosamente. “Lei è pazzo. Sta parlando di eresia! Uscite subito dal mio studio.”
“La prego…”
Gli occhi del dottore mostrano un barlume di compassione. “Mi dispiace.”
Una lacrima sgorgò e cadde sull’anello che portava al dito.
Thane l’asciugò sulla manica del camice e si poggiò allo schienale. Era stanco, troppo stanco per continuare a lavorare fino a tarda notte, col pericolo di venire scoperto. E quei continui terremoti non facevano che peggiorare il suo stato d’animo. La valle in cui sorgeva Culla di Ordhar era sempre stata soggetta a smottamenti, ma negli ultimi giorni si avvertivano continuamente leggere scosse.
“Ehi, capo!”
Per poco non cadde dalla sedia.
“Santi Dèi, Hawkeen! Non potevi bussare?”
I suoi due assistenti varcarono la porta del laboratorio. Hawkeen, un ragazzo smilzo fresco di dottorato e con un grosso naso aquilino, reggeva un vassoio con tre ciotole di zuppa scaldata al microonde. Sotto il camice, indossava la maglietta della sua band preferita, i Valhalla. Pjotr, un anziano microbiologo con i capelli ingrigiti legati in una disordinata coda di cavallo, portava in mano una confezione da sei di bibite gasate al lampone.
“Spuntino di mezzanotte” dichiarò allegramente Hawkeen, posando il cibo sul bancone. Ma il suo giubilo evaporò all’istante non appena incrociò lo sguardo di Thane.
Pjotr sedette su uno sgabello libero. “Va tutto bene?”
“Il campione. Un altro buco nell’acqua.”
I suoi colleghi si scambiarono uno sguardo eloquente.
“Thane” esordì il ricercatore più anziano, “so che non vuoi sentirtelo dire, ma devi prenderti qualche giorno di pausa. Ormai sono sei mesi. Te ne stai tutto il tempo chiuso in laboratorio, a malapena ti vediamo mangiare. Quanto dormi la notte?”
“Non molto.”
“Sei esausto, te lo si legge in faccia. Lo siamo tutti. Mia moglie continua a chiedermi di tornare a casa prima. Avevamo detto due sere la settimana…”
“Allora vattene! Andatevene a casa, tutti e due! Non vi obbliga nessuno.”
Hawkeen si issò a sedere sul bancone, proprio a fianco dell’ologramma del filamento di dna che continuava a roteare silenziosamente. “Capo, non è solo una questione di stanchezza. Anche qui la gente sta cominciando a notare che ci fermiamo sempre oltre l’orario. Dennis, del reparto kl, mi ha chiesto in mensa su cosa stiamo lavorando.”
Thane sentì Pjotr irrigidirsi al suo fianco. “Se ci scopre…”
“Staremo attenti” tagliò corto. Si alzò. “Finite il cibo, poi tornate a casa.”
Hawkeen mescolava distrattamente la sua zuppa, senza mangiarla. “Tu dove vai?”
“In magazzino. Voglio controllare che il terremoto non abbia rovinato i campioni refrigerati.”
“Non mangi neanche qualcosa?”
“Pjotr, lascia stare e va’ da tua moglie. Tu ne hai una da cui tornare.”
“Non puoi rovinarti la vita così. Leanne non lo vorrebbe.”
Thane resistette all’impulso di ridere. “Quale vita, Pjotr?”
L’altro non rispose.
“Sapevate cosa vi aspettava quando avete deciso di continuare questa cosa. Se non ve la sentite più, non vi biasimo. Ma a me non resta altro.”
Pjotr gli strinse il braccio. “Noi siamo con te, lo sai.”
Thane guardò Hawkeen, che fece un cenno d’assenso. “Sempre.”
Lo sguardo del capo-ricercatore si addolcì. “Scusatemi. Vi ringrazio per tutto quello che fate.”
Si sentiva addosso gli occhi pieni di ansia dei colleghi. Il nervosismo lasciò spazio alla spossatezza e al dispiacere per come li aveva trattati. D’altronde non potevano capire, non davvero. Lui e Pjotr avevano iniziato a lavorare in segreto all’almoscrittura di cellule umane nel tentativo disperato di salvare Leanne. Hawkeen, allora un semplice stagista, li aveva scoperti e invece di denunciarli alle autorità pontificie aveva deciso di aiutarli.
Avevano tentato. E avevano fallito.
“Ho un’idea” disse Pjotr, controllando l’ora sul palmare. “Perché domani sera non venite a cena da noi per la partita?”
Il volto di Hawkeen si accese. “Sì, sarebbe bello guardarla tutti insieme,”
Thane rivolse loro un sorriso stanco. “Non lo so, non ho seguito molto il campionato quest’anno.”
“E dai capo, ti farebbe bene distrarti un po’. E poi dicono che i Falchi schiereranno Aeldritch come distruttrice fin dall’inizio, ci sarà da divertirsi.”
“Non vi prometto niente, ma ci penserò. D’accordo?”
Dopodiché uscì dal laboratorio, le spalle ricurve e il cuore appesantito da mille pensieri.
***
Alteyras,
23 Giugno 2590 epm
“Alza la guardia! Di più!”
Alyla puntellò i piedi contro la parete trasparente del campo e sollevò il maide, appena in tempo per intercettare il colpo. Le braccia vibrarono violentemente mentre i dispositivi di potenziamento assorbivano il grosso dell’urto.
Incrociò lo sguardo beffardo della sua migliore amica, che piegò le labbra in un ghigno e le disse: “Non male.”
Stringendo i denti, Alyla ruotò il bastone e passò al contrattacco, tentando di colpirla al ventre con un affondo. Ma Yuka era una duellante esperta e deviò facilmente, per poi proiettarsi rapida nel vuoto con un avvitamento del busto. Alyla piegò le ginocchia, preparandosi a inseguirla, quando l’allenatore le richiamò da fuori il parallelepipedo di gioco.
“Basta così, ragazze!”
Il resto della squadra stava già fluttuando verso l’uscita, sotto gli occhi dei cronisti e dello sparuto gruppo di spettatori venuti ad assistere all’allenamento. Pochi minuti prima, Alyla li aveva visti guardarsi intorno sconcertati, distratti probabilmente da una delle scosse che in questi giorni stavano scuotendo la città. I giocatori in campo, ovviamente, non se n’erano nemmeno accorti: i vantaggi di uno sport a gravità zero.
La ragazza emise uno sbuffo di frustrazione, gli occhi fissi sul terzetto seduto a metà della tribuna stampa. Anche da quella distanza riuscì a vedere le labbra di sua madre che si assottigliavano mentre guardava verso di lei. Suo padre, invece, stava bisbigliando qualcosa a sua sorella, il volto arrossato e i lunghi baffi biondi che gli davano l’aria di un grosso tricheco.
Qualunque cosa le stesse dicendo, Danae ridacchiò e le viscere di Alyla si rivoltarono per la rabbia. Avevano due anni di differenza e gli stessi capelli castani, che lei però portava lunghi fino alla vita, sopra un giubbetto di pelle blu scuro che le fasciava il torso esile.
La mano di Yuka le si posò sull’avambraccio, facendola sussultare. “Ehi.”
“La odio” sibilò Alyla, stritolando il maide fra le dita guantate.
“Dai, vieni” fece l’amica con aria condiscendente. “Dobbiamo muoverci se vogliamo arrivare in tempo al ricevimento.”
“Ti prego, non me lo ricordare.”
La prospettiva di un’intera serata con la sua famiglia era a dir poco disgustosa. Avrebbe dovuto sorridere e fare la bella faccia davanti a tutta l’aristocrazia di Alteyras, ben sapendo che il padre aveva il potere di rovinarle la vita con una sola telefonata.
“Oggi sei andata decisamente meglio” disse Yuka, mentre insieme si davano la spinta in direzione dell’uscita.
Alyla fece spallucce. “Onestamente avrei preferito giocare in difesa che affrontare direttamente Damon.”
“Lo so.”
Varcò per prima l’apertura nel polimero trasparente che segnava il confine del terreno di gioco e deglutì, scacciando il senso di nausea tipico di quando si torna ad avvertire la gravità. Un istante dopo, si trovò assediata dai giornalisti.
“È vero che lei giocherà da distruttrice al posto di Suiren Jeremy?” domandò il più vicino, con il palmare già attivato e pronto a registrare.
Ci mancava solo questa. Ormai aveva imparato a tenere testa alla stampa, ma era stanca e nervosa e avrebbe solo voluto gettarsi sotto l’acqua bollente.
“Il signor Jans mi ha fatto seguire un allenamento speciale” si limitò a dire, mentre Yuka le si affiancava passandosi una mano tra i corti capelli scuri.
“È preoccupata? Sarà il suo esordio in quel ruolo ed è una posizione di responsabilità.”
“Solo la normale tensione prima di una gara importante” tagliò corto, dirigendosi verso il tunnel di ingresso agli spogliatoi.
“Non è preoccupata di doversi scontrare direttamente con Damon Lisomen? Voi due stavate insieme, no?”
“È vero che ora esce con sua sorella?”
“Abbiamo finito, grazie!” esclamò Yuka, prendendola sottobraccio.
Alyla sentì lo stomaco contorcersi. Alzò lo sguardo verso la tribuna e vide che Danae e i suoi genitori la stavano fissando. Sul volto della sorella c’era un sorriso soddisfatto e lei si ritrovò a lottare contro l’impulso di scavalcare la ringhiera e rifilarle un pugno sul muso.
“E le voci che buona parte dei capi della Campana abbia scommesso sui Tritoni?” gli gridò dietro il cronista. “Neanche suo padre sembra credere che possiate farcela.”
Yuka fece per trascinarla via, ma lei si voltò. “La mia famiglia non credeva neanche che avrei potuto giocare da titolare in una finale di campionato. Potrebbero sbagliare anche questa volta.”
Si allontanarono, inseguite dalle proteste e dal bagliore dei flash. Solo raggiunto lo spogliatoio femminile, Alyla si concesse di tirare un respiro di sollievo.
Yuka la stava osservando di sottecchi. “Sai che sono tutte cazzate, vero?”
Lei annuì, poco convinta.
Iniziò a slacciare le protezioni della tuta potenziata, nel ronzio insistente delle lampade al plasma, la cui luce fredda e azzurrognola donava all’ambiente un’aria asettica. Sotto lo sguardo preoccupato dell’amica, finì di spogliarsi e guadagnò una delle cabine doccia.
Lo scroscio dell’acqua cancellò qualsiasi altro suono.
Le parole del giornalista, tuttavia, le risuonavano ancora in testa. Davanti alla stampa si era mostrata sicura, ma se la sua famiglia avesse davvero speso una fortuna solo per vederla fallire?
Lottò contro un improvviso giramento di testa. Il vapore la avvolgeva, vorticava in maniera innaturale attorno al suo corpo nudo. Sentì il cuore accelerare e cercò a tentoni il pannello di controllo della doccia, ma le sue dita toccarono solo l’aria.
Barcollò in avanti.
Avrebbe dovuto urtare le pareti della cabina, ma intorno a lei non c’erano che vuoto e nebbia. Cercò di urlare, ma aveva la gola occlusa dal panico. Poi la foschia si addensò davanti a lei, fino a formare quella che era senza dubbio una figura umana.
La vide allungare una mano.
In quel momento, il mondo intero venne scosso da un fremito. Alyla si ritrovò a terra, il coccige che doleva contro il pavimento scivoloso della doccia, l’acqua calda che le frustava il viso. Le pareti della cabina vibravano, le luci al plasma tremularono e gli anelli della tenda di plastica presero a tintinnare gli uni contro gli altri.
“Alyla!” chiamò la voce di Yuka. “Stai bene?”
“S-sì” riuscì a biascicare.
Che cosa stava succedendo?
***
Città fortificata di Gaeras,
Ventitreesimo Giorno del Sesto Mese
Anno Seicentosessantunesimo dell’Era del Fuoco
La stanza iniziò a tremare.
I battenti della finestra scricchiolarono, lo sgabello accanto al davanzale si rovesciò con un tonfo e il mozzicone di una candela rotolò sulle assi del pavimento. Dalla strada provenivano grida di allarme e lo scalpiccio di numerosi zoccoli.
Natan aprì gli occhi, il cuscino che gli vibrava sotto la guancia. Con una battaglia in arrivo, quell’ennesimo terremoto non era un buon segno.
Dal soffitto piovve uno sbuffo di polvere. Il giovane lo osservò turbinare davanti al letto alla luce della luna piena, agitato da un vento irreale. Più che pulviscolo sembrava calugine, che lentamente si addensò di fronte al suo sguardo meravigliato, prendendo le sembianze di una ragazza minuta dal volto diafano. Rabbrividì, nonostante il tepore della notte estiva. La strana figura eterea inclinò il capo e tese una mano verso di lui.
In quel momento, due colpi sommessi risuonarono contro la porta.
Lo spettro svanì così come era comparso, lasciandolo a fissare la semioscurità deserta.
Natan si alzò, ancora stordito, e chiese: “Chi è?”
“Sono io.”
Avrebbe riconosciuto quella voce ovunque, ma gli ci volle qualche istante per realizzare di averla appena udita. Lì, fuori dalla stanza di una misera locanda a poche leghe dal fronte.
“Laefna?” sussurrò, col cuore che gli percuoteva le costole.
“Shh, sei diventato pazzo? Aprimi, presto!”
Rimosse il catenaccio e i cardini ruotarono con un cigolio. La Regina di Celaevi indossava un anonimo mantello grigio, il cappuccio ben calato sul capo da cui spuntavano un paio di disordinate ciocche bionde. Sgusciò dentro e si richiuse rapida la porta alle spalle.
“C’è il finimondo, là fuori.”
Natan indurì la mascella, cercando di calmare il respiro. “Cosa ci fate qui, Altezza?”
Lei abbassò il cappuccio. I suoi lineamenti si erano affilati negli ultimi tre anni, trasformandosi da quelli di una ragazzina nei tratti severi e autorevoli di una monarca. Le orecchie lunghe e appuntite si agitarono in un breve spasmo nervoso.
“Non c’è bisogno di essere così formali” gli disse, avvicinandosi. “Non sei felice di vedermi?”
Natan fece un passo indietro. “Dovrei esserlo?”
Lei levò una mano ad accarezzargli i lunghi capelli argentei. Lui socchiuse gli occhi al tocco vellutato delle sue dita, avvolto da una familiare fragranza di salvia fresca.
Il ricordo dell’ultima volta che si erano incontrati si agitava fra loro come un fantasma.
Laefna stringe in mano un pugnale, una splendida arma incisa con un motivo di rampicanti. La calda luce di una candela le danza sul volto mentre ti spinge sul bordo del letto. Fuori dalla finestra aperta la capitale dorme un sonno inquieto.
“Non gridare.”
Ti affera una grossa ciocca di capelli e, in un rapido gesto, vi passa la lama affilata, tagliandoli di netto. Il dolore è improvviso, come se il pugnale ti avesse amputato un arto. Un’altra ciocca, un’altra ondata di dolore. Chiudi gli occhi, cercando di resistere. Un rivolo rosso fuoriesce dalle punte dei capelli mutilati come da tanti moncherini.
Non devi farti sfuggire neanche un gemito.
La lama taglia ancora e ancora. Il sangue ti gocciola sul viso, sul torace, ti insozza le brache di tela grezza. Ne avverti il sapore dolciastro sulle labbra.
Infine, Laefna asciuga il pugnale con la manica dell’abito. La stoffa candida sembra quella di un sudario. Ti si avvicina lentamente, gli occhi blu fissi nei tuoi. Ti passa le dita fra i capelli doloranti e inclina appena il volto per posare le labbra sulle tue. È un bacio soffice, adulto, molto diverso da quelli irruenti che vi scambiavate da ragazzini tra i cespugli del palazzo.
“Ho paura” confessi.
“Anche io.”
Ne osservi il corpo slanciato, le cui dolci linee si intuiscono attraverso la veste macchiata, i capelli biondi che ricadono in una cascata irregolare lungo tutta la schiena.
La desideri, non puoi farne a meno.
Le posi una mano sul fianco e le sollevi la gonna, accarezzandole il bacino. Il respiro accelera. La attiri a te per baciarla ancora. Le sue mani ti slacciano i legacci di cuoio dei pantaloni. La osservi mentre si sfila il vestito, la luce delle candele che si riflette sulla pelle chiara, evidenziando il profilo del seno.
Le sfiori il ventre con la mano. Qualcosa, dentro di te, sta urlando a gran voce di fermarti. Esiti, a un passo dal suo inguine.
“Non posso.”
“Non ti fermare” ti sussurra lei. “Ti prego. Fra poco andrai in guerra e...”
“... e potrei morire.”
Ti solletica il collo con la punta delle dita. “Non ti lascerò rischiare la vita senza prima averti avuto. Per questo ho voluto essere io a compiere il rito.”
La fissi sconcertato mentre, lentamente, ti sfila le brache. Il suo tocco ti eccita, tuo malgrado. “Tu stai per sposare Lestel” mormori, incapace di trattenere un gemito. “Non possiamo.”
Le labbra di lei sigillano la tua debole protesta. Le afferri il capo tra le mani, dopodiché…
“Ferma” sibilò Natan, scostandosi bruscamente.
Lei tacque, abbassando il braccio. Si fissarono per un tempo che parve interminabile. “Natan, io…”
“Te lo chiedo di nuovo: perché sei venuta qui?”
“Per chiederti di non combattere.”
Lui le rivolse un’occhiata incredula. “Cosa?”
“Ti prego” sussurrò Laefna, gli occhi colmi di lacrime. “I rapporti parlano di almeno diecimila orchi.”
“Appunto! Credi che possa tirarmi indietro?” Una rabbia cieca gli attorcigliava le viscere, figlia di tre anni di frustrazione, di dolore, di solitudine. “Non hai il diritto di dirmi una cosa del genere!”
Il volto di lei si indurì. “Non ho il diritto? Io sono la tua Regina.”
“Lo sei” ribatté lui, il cuore che pulsava furioso. “Ma hai perso il privilegio di darmi ordini quando hai sposato il comandante in capo dell’esercito.”
Due lacrime solcarono le guance di Laefna “Credi che abbia avuto scelta?” disse con voce strozzata. “Ti ho sempre desiderato, con tutta me stessa! Ma avevo degli obblighi verso la mia famiglia, verso il nostro popolo!”
Natan si voltò, spalancando la porta e facendosi da parte. “Anch’io ho degli obblighi” rispose a denti stretti. “E né tu né nessun altro riuscirete a impedirmi di onorarli.”
“Non posso perderti…”
“Lo hai già fatto” le disse, deglutendo il groppo che gli serrava la gola. “Tre anni fa.”
Lei lo fissò per un lungo istante. Sembrò sul punto di dire qualcosa, poi con mani tremanti sollevò di nuovo il cappuccio sul volto. “Che la Madre ti protegga.”
Gli lanciò un ultimo sguardo, poi Natan la osservò imboccare l’uscio senza voltarsi indietro. Lo richiuse con mano tremante e picchiò la nuca contro il legno.
Una, due, tre volte.
Affondò il viso fra le mani per soffocare l’urlo straziato che gli eruppe dalle labbra. Strinse i pugni e sentì le unghie perforargli i palmi, mentre un senso di impotenza vecchio di tre anni montava in lui come un’onda di marea. I capelli che Laefna gli aveva tagliato in quella notte maledetta non erano mai più ricresciuti. Per ogni elfo, il rituale segnava l’iniziazione alla guerra, un gesto cui tutti i combattenti si sottoponevano prima di entrare nell’esercito.
Era stato il loro addio.